Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 24 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sul popolo


Caro Mard,

è difficile comprendere cosa sia popolo: può essere malinconia d’intellettuale, può essere un’idea che si realizza, per lo più, in una sorta di asciutta e noncurante attenzione, non senza trafiggenti ironie – il rapporto con le radici, con l’invisibile scaturigine, è sempre governato da ironie –; oppure può essere il nome laico della Chiesa.
Qui, nel mio quartiere, guardo gli uomini viventi sforzandomi di non percepirli come un’unica faccia gettata nello specchio della molteplicità, in modo da perpetuare ad ogni fuggevole incontro la banalità della sorpresa e la sorpresa della banalità: o irritanti, o impregnati di un numinoso triste perché irradiante da un passato (mio) non combusto dall’ascesi del destino, o meramente sconfortanti per la preliminare cancellazione del messaggio sempre di nuovo atteso e il cui tenore man mano intuiamo, per contrasto ma anche con un peso di immediatezza crescente, nell’inesorabile addensarsi del desiderio, della fame del cuore. Qui, dal mio quartiere, prendo quasi ogni mattina un autobus, che ho chiamato l’autobus dei poveri, non ricordo quando. Qualche indelicato – non certo tu, mio Mard, che pure di queste cose hai conoscenze troppo limpide e sperimentali per capirmi del tutto – potrebbe alzarsi ed esclamare che è addirittura un’ovvietà, certo, come altrimenti chiamare un autobus pieno di lavoratori stranieri miserabili, di ladruncoli, di ubriachi, di proletari da sobborgo leggermente impolverati ma con l’allure di una decenza un poco arrogante, e così via? Se c’è qualcosa di ovvio, per te e per me, è che quel nomignolo deve significare qualcos’altro: non qualcosa di meglio, ma di più strano, di più nostro – di più umano, temo.
Da molto tempo mi diverto a correggere il verso lungamente strattonato di Terenzio: homo sum, humani nihil a me alienum puto. Io dico: homo sum, inhumani nihil a me alienum puto. Nell’inumano, ovvero nell’umano al colmo della sua opacità archetipica, impersonale, maniacale, scorgo una trasparenza speciale, tradimento della consegna del silenzio o, meglio, punto dolente e cruciale dell’enigma insolubile dall’uomo in quanto uomo – da me in quanto me: le allusioni teratologiche, le rughe di delirio, la superficie così dura e fragile dei contatti fra umani, tutto il persistente albume di magie, il liquido amniotico fatto di mente sospesa, di mente che non sa di attendere – tutto questo mi toglie e mi dà il popolo, sull’autobus che prendo ogni mattina. Ho iniziato, mesi fa, quasi subito prendendone l’odore: l’odore di quell’autobus, l’odore dei quartieri che attraversa; solo così mi è stato concesso il diritto di confondermi con la sua povertà e di guardarla con cautela e passione. Il povero non è, ovviamente, il rumeno folgorato di fatica alle sette e mezzo del mattino, né la piccola drogata, né il borseggiatore – né, né, né: il povero è lo sguardo che cerca, con ansia disperata, da incubo non ancora culminante, di farsi attenzione, di imbroccare la propria giustizia, la giustizia collettiva, capace di redimere l’autobus intero, ed anche di tracimare oltre i vetri; poveri, nell’autobus, sono i percorsi magici dei desideri, delle intenzioni, sonde e bacchette di potenza stellare, che l’orologio tutto mentale e automatico della città avvince ad un ritmo meschino, a qualche saltello nella penombra degli sfioramenti – occhio e vestito, occhio e guancia, occhio e plastica, occhio e vetro, occhio e albero, occhio e occhio –. Il povero sono io, ma non in quanto io: io, in quanto io, sono peccatore – le due nozioni sono senz’altro legate, e strettamente, ma non bisogna perderne il peso specifico, il valore e la forza puri e semplici – il povero sono io in quanto parte irredenta e irredimente di quell’autobus, io in quanto tristezza dell’autobus, serialità e circolarità urbane, perenni, dell’autobus. Per questo, forse, Mard, la sete di apocalissi nella città è così profonda, così intensa, e così sospetta – direi soprattutto per la sua incapacità di spezzare il cerchio, che non si lascia affatto spezzare, ma solo consumare in una danza di fuoco verso l’alto.
Per oggi non ti descrivo l’autobus. Mi è sufficiente evocartelo. Ma tu, Mard, sei troppo agile e assorto per accorgerti della povertà di quegli sguardi, della povertà del mio sguardo nelle mattine suburbane.

Daniele

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