Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 28 maggio 2010

Salmo 137


mentre le truppe angloamericane
si avvicinano a Baghdad

al popolo iracheno, a noi

“La guerra travolge l’antica Babilonia”.
(titolo del Corriere della Sera, 3-4-2003)



‘al naharòth Bavel
sham yashavnu gam-bakhinu
bežakrenu et-Tziòn

‘al ‘aravìm betokhàh
talinu kinnorotenu

ki sham she’lunu
shovenu divré-shir
wetolalenu simchà
shirù lanu
mishshìr Tziòn

ekh nashìr
et-shìr-Adonay
‘al admàt nekhàr ?

im-eshkachèkh Yerushalaim
tishkàch yeminì

tidbaq-leshonì lechikkì
im-lo ežkrekhi
im-lo ’a ‘alé et-Yerushalaim
‘al rosh simchatì

žekhòr Adonay
livné Edòm
et yom Yerushalaim
haomrìm ‘aru ‘aru
‘ad hayesòd bah

bat-Bavel hashshedudàh
ashrè sheyeshallèm-lakh
et gemulèkh shegamalta lanu

ashrè sheyyochèž wenippètz
et-‘olalaikh el-hassala’

I

Al naharoth Bavel
sui fiumi
di Bavel, sui correnti
sfuggenti
cogli sfuggenti nomi insostanziali
(evoca remota ferocia il Tigri, fraternità
subdola l’altro, alle nostre
orecchie trasognate)

ci siamo accampati
coi nostri fuochi addomesticati
da serafini d’acciaio vegliati
e dai loro fiammanti portati
lì ci siamo seduti e abbiamo pianto
per simpatia coi luridi sfuggenti
coi fiumi miserabili di Bavel
la porta informe di un dio tenebroso
di un piccolo dio dalle vuote
occhiaie smisurate
soffiato via, da una speranza
nomade, da un barlume di nomadi,
fra le smaniose larve
e le essenze umiliate
fra i loro gemiti sempre di nuovo
come gas e olio infiammabili.

ricordando Sion la maleamata
la troppo amata, il porto di tutti,
il ventre insaziabile, la
troppo pensata e ricordata
per troppo ricordo abbiamo appeso
ai salici di Bavel le lire
sebbene un poco resti da dire
cioè – fiore del grido – da cantare.

Lì.

Iniziamo da lì, da dove siamo
finiti, da dove
i ciechi arconti del piccolo dio
ci chiedono a schiaffi e calci in cuore
e gli occhi vuoti roteando al cielo
cantate ci chiedono dateci gioia
ai noi larve smaniose di ascoltare
il sangue che vi batte sulle tempie
il vecchio ritmo crepuscolare
cantate cantate deportati
uno di quei canti che usavano
quand’eravamo vivi e voi crisalidi
o larve di speranza nel deserto
che usavano a Sion la beneamata
nei giorni della sua vita veloce
di alla speranza eterna condannata.

NOTE:
“Correnti/ sfuggenti”: vedi l’esegesi di Agostino nelle Enarrationes in Psalmos.

“Vuote/ occhiaie smisurate”: sono le occhiaie degl’idoli mesopotamici, le enormi divinità soffiate via dalla brezza del Dio di Elia.


II

Come canteremo la canzone
che Dio poetò quando noi eravamo
nomadi bolle grumi di non essere
quando il piccolo dio mangiava forte
e fingeva l’oriente di guardare
dalle sue vuote occhiaie amoroso
e Sion era dolce come il sangue
impura ancora e raggiante di spasmi
come in mano alla levatrice?
Come canteremo ciò che Dio ha inventato
al admàt nekàr, sulla terra
dell’adamo esiliato
che del suo orrore e delle sue speranze
come la pioggia del cielo ha impregnato?
Cantare, per forza (ci sono
le verghe dei morti di Bavel, c’è
quella non meno urgente del pastore
che ci porta al macello): e anche che cosa,
sappiamo (sebbene
troppo pensato e troppo ricordato
per saperlo davvero) – ma come?
Chiediamo alle mani ammanettate
nei polsini giusti
delle divise mimetiche,
chiediamolo alle manette
mentali, chiediamolo
alle mani.

NOTE:
“Manette mentali”: the mind-forg’d manacles (W. Blake, London).


III

se ti scordo Gerusalemme
si scordi la mia mano destra
che leva l’idolo a lungo nutrito
di triste fuoco addomesticato
se ti scordo la mia destra
si scordi e penzoli
senza tenersi all’osso dell’idolo
come in preghiera povera inutile

mi s’attacchi la lingua
al palato
come quella d’un nemico assetato
come chi nel deserto va a guardare
e gli scoppia di sabbia il respiro
e allora vede e crede, le ferite
gli stanno aperte davanti e d’intorno
e smaniano prenderlo, come un rifugio
ha sete d’un rifugiato

se non ti ricordo
si scorda la mano
la lira si scorda
se non mi metto sul capo
Gerusalemme come una corona
sul capo della mia gioia,
senza di lira di grido e di canto
sulla mia gioia che respira sabbia
sulla testa in cui cerca rifugio
la gioia – io metto
Gerusalemme come un elmetto

NOTE:
“L’idolo a lungo nutrito/ di triste fuoco addomesticato”: sono le moderne, ipertecnologiche armi da fuoco.

“Sul capo della mia gioia”: v. 6, letteralmente: “se non faccio salire Gerusalemme sulla testa della mia gioia”.


IV

Ricordati,
Dio. Ti ricordi?
Ecco ho letto, a salti, svagato,
qualche commento al tuo poema
che quando ero nulla hai poetato
settanta volte trascritto
nel nostro tiepido idioma
fino alla diluizione
fino alla misericordia:
e più raramente
ho di te ascoltato
un’eco confusa
nelle reni, come Yov:
e quanto ho pure
di te succhiato
ancora denso e vivente
nel latte di mia madre –
qui a Bavel che mi vale?
Con la tristezza dei fiumi
la necessità del deserto.

Ti ricordi
i figli di Edom?
Ti ricordi
Gerusalemme?
Se lo fai, io credo, non è certo
con la nostra sdentata ossessione
con l’unghia della nostra distrazione
se lo fai, io credo, tu covi
il ricordo e la spessa
dimenticanza che lo stringe mordi,
come le madri degli animali.

Ti ricordi:
gridavano (sono
più bravi di noi, sembra meglio
della poesia, non lo puoi
appendere ai salici, quel grido,
come in croce una tenera spoglia)
gridavano
Aru aru snudatela impalatela
aru coventrizzatela
aru hiroscimizzatela aru
e quando non resterà
che il fulgore del coccige
per bene pestatelo
altrove seminatelo
reliquia non ne facciano
ad hayesod
zekor Adonay
ricorda Signore
ricorda il Signore

NOTE:
“Nelle reni, come Yov”: vedi Giobbe 42,5.

“Aru aru”: vedi v. 7: “Spogliate spogliate”.

“Il fulgore del coccige”: yesod vuol dire base, petra fundamenti, parte inferiore del corpo (il coccige è il luz, il seme della resurrezione).

Ad hayesod/ zekor Adonay”: Fino al fondamento/ ricorda Signore.


V

Figlia di Bavel
Madre di Roma
e degli dèi stanchi
Madre dei salmisti
Sorella dei leviti
o tu chiamata allo sterminio
alla desolazione della grandezza
al cieco tormento della terra
nell’asciugarsi e nel trasmutarsi
sotto la mazza regale
e i detti delle stelle
e gli oracoli del corpo
e il logos palindromo dei casi
beato chi ti stuprerà
restandoti fedele
chi farà la pace
mimandoti sulla carne
i gesti del tuo sogno
beato chi
placherà la tua larva
giustiziandoti con amore
beato chi farà un fascio dei tuoi lattanti
dei salmisti dei cesari degli arcangeli
e li sbatterà sulla roccia
e non li seppellirà nella sabbia
nel limo dei tuoi fiumi
e li spaccherà sul dorso del reale
consentendo feroce a rischiare
di rompersi l’osso fino al coccige
di perdersi con tutto il suo diritto
davanti al Dio che è fuori dell’uomo
sulla faccia del Dio
sul dorso della roccia.
Beato. Giusto. Santo. Solo lui
lo può. Figlia di Bavel, prega
per il tuo e mio redentore.
Madre di Roma, prega
per il nostro pacificatore.
Che venga il suo, di Regno.
A Gerusalemme.
Prega Madre dei morti
sorella del tempio
cugina di Sion
signora del tempo
lontanante,
dell’alba nera sopra i deserti,
del grasso fango dei fiumi,
delle croci dal sangue fecondate,
madre dell’Occidente
sorella nostra.

NOTE:
“Madre di Roma”: nel Talmud (e nell’Apocalisse) Babilonia, e soprattutto Edom, sono figura dell’Impero Romano.

“O tu chiamata allo sterminio”: hashshedudà può voler dire sia “sterminatrice” che “sterminata”.

Nei versi 8-13 si allude: al mito di Marduk e Tiamat, ai culti del ciclo della natura (Dumuzi-Tammuz), all’idea di regalità astrologica e sacra, ai salmi di malattia, alle sorti annuali.

“Chi farà la pace”: sheyeshallèm lakh: “chi ti renderà” (la radice è Š-L-M, pace, pienezza).

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