Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 2 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/4


Estendendo uno spunto di M. A. Ouaknin: “male”, in ebraico raʻ, ha lo stesso corpo consonantico di “amico, prossimo”, reʻa. Amando il prossimo si ama (corporalmente, nel corpo) il proprio male, ciò che per se stessi, per il proprio io è male. Così il precetto di amare i nemici è uno di quei paradossi che riportano all’archè, alla verità archetipica dei rapporti umano-divini. La radice di “pascere, nutrire”, da cui pastore (roʻeh), è lo stessa sequenza biconsonantica, cui si aggiunge la he finale, suggello di misericordia, di chiamata dello Spirito: il celebre salmo 23 inizia con YHWH roʻi, “Il Signore è il mio pastore”, che si potrebbe anche leggere: è il mio male. Il Pastore umano e divino, umano-divino, fa pascolare le pecore, le custodisce e protegge – e le macella, le sacrifica, come l’arcipastore e arcivittima Abele. Amare Gesù Fratello è amare il male, il proprio male, il proprio nemico, perché non c’è Prossimo altro da lui, fuori da lui. I ladri, i lestai contrapposti al Pastore, che non entrano nell’ovile attraverso la Porta, sono semplici maligni, non sono il Male-di-sé, così come Gesù Cristo è il Peccato e la Maledizione, non un peccatore, un maledetto fra i molti.
Ille, inquam, Lucifer qui nescit occasum (citazione del Praeconium Paschale, dall’ultima nota del Salut).

Secondo un passo del midrash ai Salmi, il porco (chazer) è impuro, proibito (taref) perché non rumina (gerah lo yiggar, è l’immediatezza degradata di ciò che non medita, non ri-prende, non ri-flette, non fa circolare il nutrimento), ma nei tempi messianici ridiverrà ruminante e quindi lecito, puro – si chiama chazer proprio perché ritorna (chozer), perché sta facendo teshuvah. La sua è l’oscura teshuvah di ciò che è contaminato, della materia caduta, ed è figura dell’apocatastasi, della impensabile metanoia finale di Esaù, dell’impulso maligno (yetzer raʻ). Così Porco Dio è un’espressione simbolica dell’incarnazione, della manifestazione di Dio nella debolezza, ma un’espressione oscura, oscuramente tendente alla propria metanoia, al proprio ritorno – come il porco, appunto.

“Il nostro bene è nascosto e così profondamente nascosto da trovarsi sotto il suo contrario: così la nostra vita è nascosta sotto la morte, l’amore di Dio per noi sotto l’odio contro di noi, la gloria sotto l’ignominia, la salvezza sotto la perdizione, il regno sotto l’esilio, il cielo sotto l’inferno, la sapienza sotto la stoltezza, la giustizia sotto il peccato, la virtù sotto la debolezza. E così, universalmente, ogni nostra affermazione di un qualsiasi bene è nascosta sotto la negazione dello stesso, affinché la fede abbia luogo in Dio, che è essenza negativa e bontà e sapienza e giustizia, né può essere posseduto o attinto se non dopo aver negato tutte le nostre certezze” (Martin Lutero, Commento alla Lettera ai Romani). Questo paragrafo colpisce e umetta di luce l’anima, ma tradisce presto la sua unilateralità: se fosse proprio così, i rotoli di Qohelet e Giobbe, come pure i versetti giuridici e sacerdotali battuti dall’arido Soffio, potrebbero essere sostituiti da qualche conturbante passaggio di dialettica tedesca o, nel migliore dei casi, da un libretto di mistica renana con le sue apparenti durezze, le sue evidenti vertigini, e la sua sostanziale e sottilmente perplessa rinuncia ad ogni verme profetico. “Affinché la fede abbia luogo in Dio”, la gloria, il peso, lo splendore del Nome ci sono dati sia sub contraria specie che nella povera trasparenza della gloria terrestre, nell’umile e soda shalom dei patriarchi come nei grassi, dolci e buoni piaceri di una vita ordinaria.

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