Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 1 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/2


Spaventoso appunto esegetico di Léon Bloy nel suo diario: leggendo apocalitticamente la parabola dei talenti, il servo che ne riceve cinque sarebbe Israele che ha ricevuto la Torah, colui che ne ha ricevuti due la chiesa di Cristo, con i suoi due Testamenti, mentre quello che ha avuto in affidamento un solo talento sarebbe la “chiesa” dispersa dello Spirito Santo. Come sempre, Bloy coglie la scintilla dello Spirito nel deflagrare e nel vorticare dei contrari, resi più laceranti eppure (perché) più indiscernibili dall’aria tenebrosa degli ultimi giorni. Seguendo l’intuizione, il Misero che ha ricevuto l’unum necessarium, invece di farlo fruttare o di metterlo in banca, costruendo una comunità religiosa che amministri l’attesa (simbolo ambiguo come quello della lievitazione della pasta), lo seppellisce per restituirlo immutato al Padrone e viene punito per questa sua viltà. Simone Weil era ossessionata da questa storia e dall’episodio del fico sterile, che applicava a se stessa: chi ha scarse doti naturali finisce per non essere (incomprensibilmente) degno nemmeno dei doni spirituali, della salvezza. Ma Bloy, l’annunciatore del Paraclito e dello Spirito, l’autore del Salut par les juifs, sembra indicare qualcosa di più perturbante: il mendicante pneumatico sarà punito, ma come Giobbe e Israele, divenendo intercessione vivente per gli altri, condizione della loro stessa salvezza, compimento dell’ignominia redentrice del Figlio. Il castigo apocalittico dei solitari che hanno avuto in consegna solo lo Spirito vagabondo può essere, in fondo, invocazione della Gloria come ciò che è oltre la Giustizia e la Misericordia, come oltraggio per la Gloria – tale il suggerimento dell’apologo di Ernest Hello citato da Bloy nel Salut e, in una luce diversa ma indicibilmente fraterna, quello di Farid al-din Attar in un brano dell’Ilahi Nama. (L’Islam, la rivelazione del ferus homo Ismaele, è figura già apocalittica del Paraclito, sebbene – io credo – non come crederebbe Bloy).

Ognuno e ogni cosa (è stata-è-)sarà salvata, totalmente e pienamente salvata, eppure solo pochissimi, il Resto annunciato dai profeti, saranno attori e strumenti consapevoli della redenzione, e prenderanno su di sé l’inconsapevolezza e il rifiuto dell’universo, pagheranno per gli altri, che forse entreranno nel Corpo divino, nell’Unità realissima, sotto la tutela dei primi e quasi viventi la loro vita, come la maggior parte delle membra animali è animata dalla immaginazione e dalla fede della totalità incarnata, che però si concentra più attivamente in due o tre organi, non per questo più importanti, anzi più nascosti e umili, inchiodati a lavorare indefessamente, eternamente, nei crocicchi della profondità.

Il Giudeo che scende da Gerusalemme a Gerico è il Verbo incarnato, che scende dalla città celeste nel tumulto mondano, che abbandona la sicurezza dell’ordine sacro per le strade polverose dell’esilio. I briganti lo assalgono, riducendolo in fin di vita: è l’intera umanità usurpatrice e peccatrice, riassunta nelle due croci laterali, che crocifigge la Seconda Persona, la spoglia, la ferisce, le ruba gli attributi e se li assume temerariamente. I custodi del Verbo, la Chiesa fondata da lui e su di lui, non lo vedono, non lo riconoscono: in propria venit et sui eum non receperunt. Nemo est propheta in patria – l’apertura del Verbo, la sua ferita, non “sta” nella patria sacra, nella terra santa, ma è appunto apertura all’inatteso e inaudito, allo Spirito, al Paraclito. Il Samaritano è nemico del Giudeo come lo Spirito è in conflitto con il Verbo: è l’eretico, l’apostata che provoca Gesù a pronunciare vaticini dell’Eschaton, del Regno come opposizione radicale al mondo (il viandante Samaritano che transita indifeso in Giudea, la Samaritana più volte sposata e infine adultera). Il prossimo del Verbo moribondo, morto, esausto e depredato, è quel Viandante disprezzato, in pericolo, abbandonato, che si presenta come suo nemico, che appare come suo nemico. Il Soffio errabondo medica le ferite del Verbo crocifisso col suo Olio e il suo Vino, poi lo affida senza alcuna garanzia, pagando del suo, alle cure dell’Oste, il proprietario della Locanda: pandocheus, pandocheion, “che accoglie tutti”, fa pensare alla Chiesa, universale, cattolica, col suo ambiguo ufficio di custodire il Cristo ferito, moribondo, convalescente, finché non torni lo Spirito da lui effuso sulla Croce per ricompensarla di quanto avrà speso, di quanto avrà rischiato, e niente più.
In un certo senso, i briganti (“ladroni”), il levita e il sacerdote sono la stessa cosa, la stessa moltitudine – come pure l’Oste, se non mantiene (cosa piuttosto probabile: non gli conviene) la parola.
In un certo senso, nelle Scritture non si parla che della caduta e della glorificazione di Dio.

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