Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 13 maggio 2011

Filosseno di Smirne: Epistola sul suicidio/ 4


Filosseno saluta Agazia, sua compagna nella coppia celeste ed allieva amorosa e fedele.

Da questo deserto, immagine del mondo creato, che da alcuni mesi attraverso, ti spedisco qualche parola, profondamente meditata, in risposta alla tua ultima lettera. Hai dunque dei dubbi sul suicidio, e sai, anche meglio di me, di non essere l’unica; è infatti, il suicidio, qualcosa di cui si parla con un tremito e del corpo e dello spirito, perché è un atto di chi col corpo e con lo spirito interroga le cose ultime. Tu sai, anche meglio di me, che gli stoici e i pagani in genere l’hanno pensato con una certa leggerezza, e che la maggior parte dei filosofi e dei maestri, come i platonici, i giudei, i magi e i pastori della Chiesa di Cristo, sia psichica che pneumatica, l’hanno condannato quale pessimo fra gli umani peccati, quasi atto del demonio stesso compiuto prendendo possesso di un corpo e di un’anima d’uomo. Il mio insegnamento migra lontano dagli uni e dagli altri, e nel deserto della prova attende la grande visione che fece di Mosè la figura della mediazione fra la Luce e la Tenebra.
Gli atti appartengono sempre alla mescolanza, quindi non bisogna giudicare, perché il grano e il loglio, qui ed ora, non si possono discernere: neanche il Cristo psichico lo poteva. In se stessa l’entimesi del suicida è desiderio di affrettare la morte; quanto all’atto, che quell’entimesi esprime, come l’omicidio non è necessariamente peccato, o almeno peccato grave, ad esempio quando, richiesti, abbreviamo ed alleviamo le sofferenze del fratello, manifestando una caritatevole impazienza di liberarlo da ciò che odia: così, in alcuni casi, il suicidio può esprimere e manifestare un’entimesi non tenebrosa, o non del tutto tenebrosa.
Prevedo la tua valida obiezione: l’impulso suicida, cioè della distruzione di sé, non appartiene essenzialmente alla Tenebra e al suo Regno, divoratore di se stesso in una contesa molteplice ed anzi caotica? Vediamo se è così: vediamo se è la Verità intera.
Nella genesi del cosmo l’impulso distruttivo si esprime come aggressione alla Luce, in cui già è potenziale, per il principio della mescolanza, il desiderio di morire, da parte dell’impulso tenebroso stesso, attraverso la relazione innaturale ed ingiusta con la Luce. La Hyle non ne è cosciente, ma la sua entimesi autodistruttiva, esprimendosi nella demiurgia come entimesi di propagazione ed affermazione invidiosa di sé, nella mescolanza con la Luce divina – principio della gnosi – è piegata al moto verso la salvezza impresso proprio dalla Luce. Ma come nella mescolanza la contaminazione della Luce da parte della Tenebra si capovolge nella contaminazione della Tenebra da parte della Luce, e così la forza della Tenebra cede alla debolezza della Luce, la cui forza sottile e insieme semplice come colomba e astuta come serpente tratta la Tenebra come Materia in senso stretto (hyle) nella demiurgia; così l’entimesi suicida della Tenebra si capovolge, all’interno del corpo dove essa cerca ciecamente di durare, nell’entimesi suicida della Luce mescolata, che vuole morire perché il Dio che non è subentri finalmente a ciò che è.
Dunque l’uomo suicida, come ho detto, in un certo senso riflette l’errore e la colpa del Demiurgo malvagio, che creò distruggendo e imprigionando, ma che alla fine distrusse e imprigionò se stesso, manifestando così la propria ignoranza. Tuttavia l’uomo è opera della mescolanza, e quindi la violenza contro il corpo può coesistere in lui con il desiderio di salvare la Luce sepolta, se egli ha la volontà di accettare la sofferenza per l’espiazione del peccato attuale – quale è il suicidio – ed ha conoscenza della necessità, assoluta e non condizionata da circostanze individuali e contingenti, della distruzione di tutto ciò che appartiene al cosmo. Certo, l’impazienza e la temerarietà di quest’atto sono proprio le stesse dell’atto iniziale del demiurgo, per cui ogni atto in questo mondo implica il peccato e in un senso limitato è peccato; per questo motivo vanno compiuti solo i pochi atti necessari alla salvezza, e l’atto del suicida lo è raramente: ma alla sua entimesi non si può obiettare molto, se è molto mescolata ad un’entimesi di Luce. E infine l’atto stesso, se non è compiuto per moventi troppo limitati ed ilici, può condurre almeno ad un’altra nascita, in cui l’impazienza cieca di salvarsi dimostrata nella precedente può meritare una reale accelerazione della Redenzione di tutti. L’uomo suicida, a dire il vero, in genere non chiede la Redenzione totalmente e gnosticamente, ma chiede che gli sia concessa dal Demiurgo – o dal Padre, se c’è mescolanza di Luce – qualunque altra cosa, purché non resti nella sua presente condizione di mescolanza. Ora, fuori della mescolanza non ci sono che i sommi principi, Luce e Tenebra: ma la limitazione ilica o psichica della sua entimesi lo vincola di nuovo alla mescolanza, sebbene il suo grado futuro dipenda dal grado presente di Luce e Tenebra in cui ha deliberato l’atto. Ho detto che il suicida desidera qualunque altra cosa: non escludo che possa desiderare ‘qualunque altra cosa purché non sia la mescolanza nella sua totalità’; in questo senso, la sua entimesi coinciderebbe quasi con quella del Mediatore gnostico. In questo senso, la sua somiglianza con il Demiurgo sarebbe quasi quella del Serpente di bronzo con il Serpente omicida; perché il Cristo stesso ebbe forse quella conoscenza e quella volontà.
Con questo non voglio certo, né vorrò mai, esortarti a riflettere sul suicidio come su una possibilità degna in sé di uno gnostico; né tantomeno a metterlo in atto, perché, come dicevo rapidamente, sono così poche le cose che dobbiamo e possiamo mettere in atto: a maggior ragione se il mio sospetto è fondato, vale a dire se tu stai rattristando il tuo spirito con queste meditazioni a causa della mia assenza. Tu non la dovresti credere troppo lunga – così hai scritto – nemmeno se non ci ricongiungessimo più in questo mondo tenebroso, fragile e provvisorio; perché nella luminosa Terra dei Viventi saremo uniti in eterna conversazione di pace e di allegria, e già lo siamo se ci amiamo, come facciamo, di un amore perfetto e, quaggiù, fra i mostri e le insidie, veramente clandestino.

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