Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 16 maggio 2011

Da Adamo vegetariano a Noè carnivoro: il cibo nei primi capitoli della Genesi


Il seguente articolo di Daniele Capuano è stato pubblicato dalla rivista Appunti di viaggio, n. 84 (maggio-giugno 2006).

Il più grande pericolo dell’esistenza è che l’uomo si nutre solo di anime.
Detto inuit

Nutrirsi, è aver bisogno del nutrimento. Al pari della necessità di respirare, la fame è il segno massimo del bisogno, della dipendenza della creatura: ma in modo meno immediato, più indiretto, più relazionale. Il cibo sarebbe quindi la tangibile prova dell’irriducibile povertà della creatura di fronte alla pienezza del suo Creatore: noi, qui in basso, contingenti, impermanenti; Lui, più in alto di ogni altezza, assoluto e necessario, indipendente da ogni cosa proprio perché ogni cosa dipende da Lui. Ma la Rivelazione ci insegna, ora velatamente ora in modo chiarissimo e sfolgorante, che l’essenza di Dio è la Misericordia: e la Misericordia è interdipendenza fra creatura e Creatore, tra Signore e servo; il sufismo la chiama “segreto del rapporto Signore-servo”, sirr ar-rububiyya. Noi, i contingenti, non possiamo esistere né essere senza Chi ci ha donato l’essere; ma è altrettanto vero che Dio non può manifestarsi, ed essere quindi Se stesso, senza la visibile e misteriosa fragilità del Creato, che è bellezza e nullità insieme. L’affermazione iniziale va quindi ripresa: è come un semicerchio che attende di chiudersi, di formare un anello perfetto, un nodo durevole, un vincolo indissolubile. Dio nutre le creature, opera delle Sue mani, con la propria Shekinah, cioè con la propria Presenza o Immanenza diffusa, disseminata nel mondo: le nutre di Sé. Come ha detto Meister Eckhart, se sapessimo realmente che Dio è dappertutto, prenderemmo l’Eucarestia anche mangiando il cibo di ogni giorno. Ma non solo Dio offre Se stesso nel nutrimento: perché il circolo della Misericordia sia sigillato, dobbiamo ricordare che, nella religiosità arcaica e tradizionale, anche l’uomo nutre Dio, e lo fa attraverso il sacrificio, in particolare attraverso la sua forma più alta, l’offerta di lode – la preghiera.
Poiché intendiamo esaminare brevementi alcuni passi della Genesi, il primo libro delle Scritture ebraiche e cristiane, possiamo iniziare giocando un po’ con le parole, secondo l’insegnamento rabbinico. In ebraico “mangiare” si dice akàl, parola composta, come quasi tutti i verbi semitici, di tre consonanti (l’alfabeto semitico non prevede la scrittura delle vocali): alef-kaf-lamed. La alef, prima lettera dell’alfabeto, è il simbolo dell’Unità divina: insieme alla lamed, la terza consonante radicale, forma uno dei più importanti nomi di Dio, El (1). La seconda radicale, kaf, è il geroglifico della mano aperta (kaf significa la mano concava, che prende o tiene qualcosa). Abbiamo quindi El, Dio, che racchiude in Sé una mano. Ma la kaf, scritta diversamente, è anche il suffisso della seconda persona singolare, “Tu”. Sembra che l’atto del mangiare implichi due cose, che sono una: che Dio apra la Sua mano; e che, mangiando, si possa entrare in rapporto col Tu divino. Mangiare è di per sé culto, religione: non lo diventa nella storia; appartiene alla sua essenza, secondo il disegno di Dio.
Il disegno di Dio, così com’è nel principio (bereshith, titolo ebraico della Genesi), fa dell’uomo il dominatore del mondo, ma un dominatore sacerdotale e regale, a Sua immagine e somiglianza. Creato nel sesto giorno, l’uomo nomina le cose perché ne conosce intimamente gli archetipi: e li conosce perché li reca in se stesso. Ripeterà Pico della Mirandola molti secoli dopo: l’uomo è mediatore universale, copula mundi, perché non si identifica con un solo archetipo come ciascuna delle altre creature, ma tutti li assume nel suo rapporto con la Totalità, e con Dio. Secondo le parole di Elohim, l’uomo, Adamo, tratto dalla terra (adamàh), dovrà mangiare ciò che la terra spontaneamente gli offre: “Ecco, vi ho dato ogna sorta di vegetale che produce seme che è sulla faccia di tutta la terra, ed ogni albero in cui ci sia frutto che produce seme sia per voi nutrimento (lakem yihyèh leaklà)” (1,29). A tutti gli altri animali in cui c’è il soffio della vita (nefesh chayyà), Elohim dà come cibo, senza rivolger loro la parola alla seconda persona, “i vegetali verdeggianti” (1,30). La differenza è sottile ed importante: l’alimentazione di Adamo sarà vegetariana come quella di tutte le altre bestie, ma avrà un rapporto speciale e particolare con i semi. Il testo dice due volte zorea‛ zara‛, piante e frutti che “producono seme” (letteralmente “che seminano seme”): l’uomo, che contiene in sé i nomi e i “semi” di tutte le cose, accoglie in sé la potenza seminale della terra, e il suo cibo per antonomasia sarà, quando passerà dal mangiar crudo al mangiar cotto, il pane, fatto di sola semenza tritata (sacrificata) e impastata con l’acqua. Ma perché gli animali, appena usciti dalle mani di Dio, sono vegetariani?
La creazione, nell’istante della sua novità assoluta, in principio, è molto buona e molto bella: vita pura e luminosa, somiglia ad un unico, grande vegetale, raccolto in se stesso, nella propria perfezione (radicato), ma anche offerto fuori di sé, donato (fruttificante). Inutile cercare nascondigli sentimentali, in un testo di terribile chiaroveggenza come la Bibbia: sin dal principio, se l’uno mangia, l’altro deve morire: nutrimento e morte, nutrimento e sacrificio sono essenzialmente e perpetuamente congiunti. Ma la morte del vegetale, sembrano dirci questi versetti della Genesi, è appunto il sacrificio primordiale: appartiene all’età dell’oro, a ciò che l’induismo chiama hiranyagarbha, l’“embrione aureo” e luminoso dell’essere, intriso di sattva, cioè di trasparenza essenziale, armoniosa, non-violenta. Il cibo di Adamo e delle altre bestie, che ancora sono in comunità di vita con lui, è ciò che la terra offre liberamente: il verde e ingenuo vegetale, che, in virtù delle sue salde radici, non ha un’individualità distinta come l’animale (2), si manifesta e dona al mondo, ma non manifesta la sofferenza delle proprie ferite e della propria morte. Adamo potrà e dovrà mangiarlo, ma conservandone il seme, e quindi la continuità di esistenza, così come conserva e custodisce nella propria anima e nella propria mente i semi (nomi) delle cose: per questo (2,5.15 etc.) Adamo è chiamato da Dio, che lo ha appena creato, ad essere agricoltore, a lavorare la terra (adamah) da cui è stato tratto. La Scrittura usa qui uno dei suoi verbi più pregnanti: ‛avàd, servire, compiere un lavoro, prestare un culto; l’uomo è e sarà per sempre un ‛eved, un servo bisognoso che coltiva la terra e il proprio rapporto con Dio. Il latino non è meno sottile: colere vuol dire coltivare ed adorare; coltura, cultura e culto sono mirabilmente fusi nel disegno originario dell’uomo.
Il peccato di Adamo è una rottura dell’ordine universale: l’embrione d’oro, l’uovo luminoso si incrina e si apre; nasce, dolorosamente, la storia, cioè l’unica cosa che tutti ricordiamo. L’uomo, tratto dalla terra, doveva custodirla e servirla, sollecitarne la spontaneità con la religiosa semplicità del culto: ma d’ora in poi la terra, coinvolta nella maledizione dell’uomo, opporrà resistenza all’armonia; il servizio di Adamo sarà sempre di più schiavitù. Per la prima volta viene citato il pane (lechem), accompagnato dal “sudore del volto” (3,19): il fuoco che serve a cuocerlo sembra qui, implicitamente, un altro marchio della vita di pena posteriore al peccato. Il segno estremo della Caduta di Adamo e della donna, Eva, saranno le tuniche di pelle (kotnoth ‛or, 3,21) che Dio stesso fabbrica per velare la loro nudità: come in un travestimento rituale, i due si identificano più intimamente con l’animale, dal quale prima li separava la funzione sacerdotale e mediatrice. Osserviamo che, per preparare queste pelli, Dio ha dovuto probabilmente togliere la vita ad una o più bestie.
Con Caino e Abele entriamo ancor più a fondo nelle tragiche pieghe della storia umana. Caino, il contadino, il “servitore della terra”, è un misuratore di spazio che adora Dio offrendoGli i frutti del suo lavoro; Abele, il pastore nomade, offre invece i primogeniti del suo gregge e il loro grasso (Gen 4,4). Uccide cioè alcuni degli animali che alleva per sacrificarli a YHWH: ma non è detto, ancora, se li mangia anche lui, se partecipa alla consumazione del sacrificio. “E YHWH guardò Abele e la sua offerta, ma non guardò Caino e la sua offerta”: il sacrificio animale sembra più gradito a Dio del sacrificio vegetale. Perché? Cos’è cambiato? È cambiato tutto, in certo modo, anche se l’essenza del sacrificio è immutabile. L’immolazione dell’animale è “guardata” da Dio perché il pastore uccide, ancor prima della bestia, il proprio affetto per lei: l’animale-vittima viene offerto a Dio, attraverso la morte, proprio in quanto lungamente amato e curato. Soffre il sacrificatore e soffre, visibilmente e udibilmente, anche il sacrificato, perché l’individualità dell’animale è più vicina all’uomo, più determinata di quella del vegetale. La sofferenza del vegetale esiste, ma è muta, silenziosa: dà meno consapevolezza del significato del rito a chi lo compie; forse è anche per questo che i frutti di Caino vengono apprezzati di meno dell’altare di Abele, insanguinato e coperto di grasso.
Seguendo il testo biblico, il passaggio definitivo all’alimentazione carnea è concomitante ad un altro tragico passaggio, una morte simbolica del mondo intero: il Diluvio. Dopo questa terribile espiazione, Noè, nuovo Adamo, riceve da Dio parole che ricordano quelle rivolte al primo uomo nel sesto giorno, ma che sono articolate in benedizioni e proibizioni, annunci e precetti. Il Patto immediato e quasi implicito degli inizi ha bisogno di essere sigillato in modo molteplice. Proviamo a leggere i primi versetti del capitolo 9.
“Fruttificate e moltiplicatevi”: le stesse parole di 1,28; ma il dominio promesso ad Adamo sembra ora sfregiato da una smorfia di spavento. “Il timore di voi e il terrore di voi sia su tutti i viventi della terra e su tutti gli alati del cielo. Tutto ciò che striscia sulla terra e tutti i pesci del mare siano nella vostra mano”. Se la prima parola, morà, è applicata anche al timore reverenziale, la seconda, chit, indica la lacerazione, lo sconquasso interiore di fronte a ciò che fa paura. Come l’uomo ha timore di Dio, così gli altri animali avranno timore (e spavento) dell’uomo. Va detto che anche nel rapporto con Dio il timore ha diversi livelli: c’è un timore di Dio per così dire pedagogico, simile alla paura di ciò che non si conosce, all’ansia per la punizione; ma c’è anche un timore che è stupore radicale ed incancellabile, percezione del mistero, senso di quella distanza fra creatura e Creatore su cui si fonda la relazione. L’uomo resta, per vocazione, un mediatore cosmico, un sacerdote dell’universo, come Adamo: ma il terrore-spavento che la sua presenza infonde in tutti gli animali è una conseguenza del peccato originale; l’altro timore, invece, è la distinzione stessa dell’animale dall’uomo (animale unico ed impensabile), in cui l’uomo può riconoscere la propria fragilità creaturale al cospetto di Dio. Le bestie sono “nella vostra mano (beyedkem)”: un’autorità-potere che è difficile preservare dall’arbitrio.
Ecco ora i versetti che più ci interessano: “Ogni animale strisciante, che sia vivo, sia per voi nutrimento. Io vi do tutto, come vi ho dato i vegetali verdeggianti (cfr 1,30). Solo, non mangerete una carne nel cui soffio vitale (benafshò) ci sia ancora il suo sangue (damò)” (3-4). Partiamo dal terzo versetto: all’uomo è consentito di essere tanto carnivoro quanto vegetariano. Può partecipare sia della dieta degli animali erbivori che degli animali carnivori, che però, come prede e predatori, sono in perpetuo conflitto tra di loro. L’animale erbivoro comunica con la silenziosa vita vegetale attraverso il ritmo della sua manducazione e della sua digestione, dalla quale l’uomo ha tratto le metafore della propria interiorità, della propria pratica spirituale: meditare, ruminare sono parole che rimandano alla lenta e paziente concentrazione delle bestie. Ma l’animale carnivoro uccide e mangia l’erbivoro (o, più raramente, un altro carnivoro) per entrare in contatto e in comunione immediata con l’animalità stessa, che è offerta e negata nel rito violento della caccia: la vita indivisa della natura viene donata al carnivoro come vittima recalcitrante, urlante, sofferente. Il trauma del peccato originale è qui visibile con chiarezza accecante. Ma a Noè, cui viene consentita la carne animale, non viene consentito il suo sangue: qui sono possibili due livelli di lettura. Infatti, secondo la futura tradizione ebraica, abbiamo ora il primo precetto della kesherùth, la regola religiosa applicata all’alimentazione: il sangue (dam), che coincide con il soffio vitale, con la vita animale (nefesh), appartiene a Dio che l’ha dato, e a Lui va offerto prima di mangiare la bestia immolata. Ma le norme consegnate a Noè sono considerate valide per tutti i popoli, in quanto sono tutti discendenti dei sopravvissuti al Diluvio, alla rigorosa Giustizia divina. Non “mangiare una carne nel cui soffio vitale ci sia ancora il suo sangue” significa anche uccidere l’animale prima di cibarsene: non mutilarlo, non seviziarlo (ad esempio amputandone un arto) per saziare la propria fame; ma probabilmente allude anche ai culti orgiastici diffusi in quasi tutte le civiltà arcaiche, le cacce rituali in cui si imitavano il predatore divino e la sua preda insieme. Ne abbiamo un nitido e forte esempio nella Grecia antica, con i riti di Dioniso: l’animale veniva inseguito e sbranato ancor vivo (sparagmòs, lacerazione); sperimentando l’identificazione sia con lui che con il carnivoro cacciatore, si gustava quella che Euripide chiama la “gioia di mangiare crudo (omophagon charin)”. Ma a Noè (e, in lui, a tutte le genti della terra, ebrei e pagani) è vietata proprio questa “gioia”: egli dovrà uccidere e mangiare l’animale, ma non come il carnivoro dionisiaco, semidivino (l’immediatezza dei denti affondati nel collo della preda); dovrà immolarlo ritualmente (con la mediazione di un oggetto sacro, un coltello), sacrificandolo a Dio, e dissanguarlo, ribadendo così la propria difficile vocazione di sacerdote del mondo, assegnata ad Adamo e poi sfigurata dal peccato.
In realtà, uccidendo l’animale amato, con il quale c’è stata condivisione di vita e al quale si sono dedicate pazienza, attenzione ed energie, l’uomo-sacerdote ripete il suo peccato originario, la lacerazione dell’armonia cosmica, dell’ordine di luminosa e pacifica interdipendenza: ma lo fa nel contesto tragico ed esaltante del rito, cioè della santità, che in ebraico biblico è qodesh ed indica la separazione di un atto dall’ordinarietà e dalla falsa immediatezza. L’atto santissimo per eccellenza, il sacrificio dell’animale, riflette dunque l’atto orribile ed esecrando di Adamo, di Caino, ma in modo capovolto: ciò che ha causato la discesa, accettato nello spazio e nel tempo del culto divino, è il principio dell’ascesa, del ritorno, della ricostituzione dell’ordine.
Come si vede, nelle scarne parole del patto noachide è già ben articolata la logica del sacrificio e, dal punto di vista ebraico, vi sono implicitamente presenti i principi della purità alimentare (la kesherùth) e della macellazione rituale (la shechità). La prospettiva sacrificale, con la sua tragica paradossalità, è anche nel cuore e nelle viscere della Rivelazione cristiana: come il peccato originale si ripete, invertendo il proprio segno, nell’atto santo e terribile dell’immolazione, così è, nella dottrina cristiana, beatrix culpa, colpa e disastro che ha portato al mondo una salvezza e una beatitudine ben più grande di quella sperimentata nell’Eden, dove regnava l’immediatezza, e Adamo ed Eva non avevano ancora “aperto gli occhi” sul male e la complessità. Gesù è stato colpevolmente, orribilmente ucciso, eppure il suo è stato il sacrificio perfetto, perché la sofferenza comune a tutte le vittime della storia si univa, in lui, alla piena volontarietà, all’accettazione irrevocabile fin dall’eternità. In questo il sacrificio dell’uomo è diverso da quello dell’animale, almeno secondo la lettura biblica: infatti, perché il sacrificio sacerdotale sia valido, si postula non la volontarietà della vittima, ma quella di Dio che l’ha creata e quindi staccata da sé, e quella del sacerdote che fa la volontà di Dio. Sappiamo, però, che nelle culture arcaiche la vittima animale, l’animale ucciso e mangiato da una comunità religiosa è sentito e pensato come un redentore, come un essere divino che, pur soffrendo, volentieri si dona all’uomo: soprattutto nei popoli di cacciatori, dove la necessità dell’espiazione e della comprensione è ancor più forte ed urgente (3). Ad ogni modo, sia nei popoli arcaici che nell’uomo biblico, la logica del sacrificio, alla lunga, proprio a causa della sua intima complessità si rivela un pericolo per la coscienza religiosa. Le vertigini che dà il sacrificio, ripetendosi secondo i ritmi regolari del calendario cultuale, sono soffocate dall’insensibilità: il tempo santo, “separato” dell’immolazione diventa, nello srolotarsi dei giorni, il movimento inesorabile di una macchina. Per questo Dio dice così spesso, per bocca dei suoi profeti, che il grasso e il sangue degli altari lo disgustano: come nel caso di Abramo, il più evidente e terribile, Egli non pensava alle colonne di fumo denso ed acre di un olocausto, ad un corpo di vittima accuratamente squartato, ma al sacrificio della volontà dell’uomo, all’offerta di sé che il sacrificatore fa nella persona della vittima – alla morte-di-sé che è preghiera, lode, gratitudine, invisibile e più reale del sangue versato.
Eppure le parole di Dio a Noè non vanno dimenticate. Anche se il sacrificio è provvisorio, come tutto l’ordine sacro (e come il mondo stesso, del resto), al di fuori della sua tragicità e della sua ritualità, la macellazione di animali diventa assassinio puro e semplice: e un assassinio, per di più, aggravato dalle sue attenuanti, che sono la torpida inconsapevolezza, l’ansiosa uniformità delle masse moderne di fronte al silenzio dei mattatoi industriali – templi senza eco di parola divina, risuonanti solo del grido di quegli animali che i nostri antichi padri, almeno, amavano, soffrendo realmente e intimamente nel toglier loro la vita per nutrire e prolungare la propria.
E anche quando non c’era più la cosciente, lacerante sofferenza, che forse ha accompagnato solo il sacrificio primordiale, c’era però la forma del rito, una recita simbolica, un confine, fatto di gesti e di parole, fra il mistero inesauribile del significato e la pura insignificanza, la pura neutralità dell’iterazione. È fatale che, rinunciando alla forma, si rinunci più o meno disinvoltamente al significato: e da secoli non si intravede un orizzonte entro cui ci sia possibile pensare e sentire ciò che facciamo col nutrimento e del nutrimento. Oltre il tragico, c’è solo lo spirito: ma dove soffia, lo spirito, nel mondo dei mattatoi rimossi, nell’epoca dei settari vegetariani e dei carnivori allegri, in cui la protezione anche giuridica degli animali liberi o domestici viene pagata col silenzio sugli innumerevoli animali degli allevamenti?

Note:

1) Come particella, el, vocalizzata diversamente, indica anche la direzione (“verso”) e la negazione dell’imperativo, al.

2) La Bibbia, come tutte le altre tradizioni, paragona spesso l’uomo all’albero: ma Giobbe e le Upanishad ci ricordano dove finisce l’analogia. “Per l’albero c’è ancora una speranza: se viene tagliato, rinverdirà; il suo germoglio non morirà... Ma un uomo, quando muore, è finito: dov’è un uomo, dopo l’ultimo respiro?” (Gb 14,7.10). “Ma l’albero, una volta tagliato, si leva dalla sua radice in una forma nuova: un uomo, una volta abbattuto, da quale radice rispunterà?” (Brhadaranyaka Upanishad III 9,28).

3) Ad esempio, in alcune tribù indiane di pescatori nella zona di Vancouver, i salmoni sono considerati mediatori divini che si sacrificano per nutrire gli uomini, e infine risorgono. L’animale è mediatore di cultura e conoscenza: cfr la storia di Hasib Karim ud-Din, nelle Mille e una notte; nelle profondità della terra, il giovane viene nutrito (con una dieta vegetariana) ed educato dalla Regina dei Serpenti, che poi gli offrirà il suo stesso corpo come cibo per fargli attingere la conoscenza suprema.

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