Stupendo passo del
Talmud (dal trattato Tamid)
commentato da Lévinas: Alessandro Magno arriva in Africa, oltre “le montagne
delle tenebre”, e trova una città di sole donne, probabilmente un popolo dove
ancora vige un regime matriarcale. Chiede una pagnotta, gli portano un pane d’oro
su una mensa d’oro. Sbalordito, il più inquieto dei conquistatori le interroga:
“Gli esseri umani mangiano forse pane d’oro?”. Gli rispondono: “Se è del pane
comune che vuoi, non ne esiste forse nel tuo paese, dal momento che sei venuto
sin qui a cercarne?”. Alessandro, prima di partire, scrive sulla porta della
città: “Io, Alessandro di Macedonia, ero uno stolto prima di venire in Africa
in questo paese abitato da donne e aver ricevuto i loro consigli”. Giustamente
il filosofo lituano vede stigmatizzate in queste righe tutte le guerre
coloniali, prive di gloria, mosse dall’esecrabile fame dell’oro. Tuttavia credo
sia opportuno estendere il derash:
prima di diventare simbolo e poi segno del desiderio illimitato, idolo
ammaliatore e antropofago, l’oro è desiderabile per se stesso, per il suo
bagliore solare, per la sua potenza di simbolo sacro – e proprio per questo è stato scelto per ricevere l’impronta
del prestigio regale, restituendola moltiplicata. Qui, in questa piccola
leggenda, è colto il passaggio dal diritto materno al diritto paterno, fondato
sulla guerra e la conquista: Alessandro, come Mosè, ha corna arietine, domina –
con il suo Streben di maschio
inappagabile, maledetto – la ferrea Era astrologica dell’Ariete. Crede di
chiedere alla comunità sacerdotale delle donne un pane demetrico – la propagazione
della vita dalla terra del grembo, il suo mantenimento con la custodia del
fuoco domestico, della pasta da lasciar lievitare nella penombra dell’attesa.
Ma le donne sanno che il maschio chiede loro un pane d’oro, un ricordo della gloria dell’Età dell’Oro, in cui tutto era
sacro: le sagge matriarche hanno compreso che quel pane duro e splendido è il
loro stesso corpo, è la presenza, la Shekhinah
femminile stessa che il patriarcato santifica e mette sotto chiave, come un
oggetto liturgico, separato dalla mischia sanguinosa del quotidiano.
In una delle più
antiche e diffuse storie del mondo, un poveruomo (nella versione araba, un
cairota) sogna che la sua fortuna è in una terra lontana (ad Isfahan), e si
mette in viaggio per cercarla. Giunto nel luogo indicato dalla visione, per
caso viene sospettato di un furto e i randelli dei gendarmi lo riducono in fin
di vita. Quando si risveglia tra i ceppi ed è costretto a raccontare, con un
amaro sorriso che vince il riserbo, il suo viaggio di piuma sballottata dal
soffio di un’immagine notturna, il capo della polizia scoppia in una greve
risata e gli confida che anche lui ha sognato un tesoro, ma nella città del
Cairo, e gli descrive il giardino, l’albero, il luogo esatto in cui scavare.
Così il sognatore, che ha riconosciuto nella descrizione del capitano la
propria stamberga, torna al punto di partenza e diventa ricchissimo. Tale è
ogni ricerca: il bisbiglio di un sogno, di una visione personale, ci getta nel
mondo, nella distanza, nella separazione; finché il randello della necessità,
di Ananke, colpendoci per puro caso, ci fa sbattere contro la dura superficie
dello specchio, e con linguaggio chiarissimo ed enigmatico ci confida: “Tu sei
partito dal tuo sogno, e anche questo è un sogno – un sogno sognato da migliaia
di esseri, da un unico essere pieno di saggio e infantile stupore. Il cerchio
dell’immagine sognata si chiude a casa tua, nella tua baracca alla periferia
del Cairo”.
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