Il tema
della corporeità spirituale è fondamentale per liberare l’esegesi scritturale
di Jung dall’astrazione razionalistica degli studiosi di fenomenologia
religiosa e dalla confusione epistemologica della New Age – due facce dello
stesso approccio mutilato, parziale: l’immagine del versetto biblico non
va privata della sua carnalità in direzione di una lettura intellettualistica o
spiritualistica; l’immagine è corposa perché allude alla corporeità, sebbene si
tratti di una corporeità spirituale, sottile, che è tuttavia più vivida
e definita di quella terrena, non meno. La Bibbia parla della Terra in
cui scorrono latte e miele, Giovanni a Patmos vede la Città cubica di diaspro,
Muhammad non fa che recuperare questa visione immemoriale del Giardino delle
delizie, della pienezza di tutti i sensi – e ciò va inteso in modo non allegorico,
come se fosse segno di altro, di un’essenza separata, ma in modo simbolico,
in quanto indica qualcosa di così reale che i nostri sensi e la nostra ragione
attuali non sono in grado di afferrarlo. Dunque le condizioni di realtà –
tempo, spazio, materia – non sono abolite dualisticamente nel mondo immaginale,
ma viste ed esperite in modo più integrale, più completo. Così, ed è solo
apparentemente paradossale, la pluralità di prospettive, il politeismo
archetipico preserva l’unus mundus, l’uni-totalità, mentre il
monoteismo unilaterale è di fatto dualistico, contrappone mondo e oltremondo,
materia e spirito.
Rischi
dell’approccio junghiano, evidenti ad esempio nell’esegesi simbolica di
Drewermann: la storia sacra viene dissolta in uno spazio archetipico
universale, impersonale, che la relativizza, considera la Scrittura qualcosa di
secondario, un veicolo pressoché intercambiabile. Di fatto la Scrittura sacra è
una condensazione di archetipi eterni nell’intersezione con un dato momento
temporale, storico: tuttavia gli archetipi non possono che manifestarsi nel
concreto, nell’individualità e nella comunità ispirate, non sono mai
attingibili in quanto tali. L’esperienza religiosa non può mai uscire dal modo
in cui le immagini si sono date all’uomo: può solo, ermeticamente, dissolvere
le incrostazioni letteralistiche, vedere hillmanianamente in trasparenza – o
ricevere, se a ciò si è destinati, un nuovo teatro della memoria, una
nuova sintesi immaginale. Abramo non è un nome inessenziale dietro al quale
vediamo la Paternità, la Fede, l’Intercessione etc.: per la maggior parte
dell’umanità, sono queste idee eterne a presentarsi ‘dietro’ il nome di Abramo.
Il nome, l’immagine, vengono prima delle idee: gli archetipi si danno in
essi, non attraverso di essi.
Spessore
culturale di ogni esperienza religiosa: proprio perché l’esperienza religiosa
riguarda l’anima, e l’anima è immaginazione, e l’immaginazione è collettiva, è
cultura. Come può un uomo d’oggi applicare a sé le immagini bibliche –
pastorali, agricole, fondate su realtà un tempo vissute quotidianamente e oggi
perdute, come l’ossequio a un re o a un padrone, la famiglia come piccolo stato
etc.? Un esempio impressionante: tra le visualizzazioni ignaziane spicca lo llamamiento
del rey, la cerimonia in cui si riceve dal re una missione cavalleresca. Un
gesuita d’oggi ha consigliato di aggiornare l’esercizio spirituale immaginandosi
davanti a un “grande capitano d’azienda”: difficile pensare a due situazioni
più (spiritualmente, culturalmente) distanti...
A volte si rischia di ‘usare’ gli archetipi
per ‘spiegare’ un’esperienza religiosa. Ma la prima espressione di
un’esperienza religiosa è sempre un rito, un’azione, che in quanto tale
è inspiegabile: ha la ricchezza multidimensionale di un simbolo, di un evento
che sta sulla soglia fra i mondi. L’esperienza religiosa comincia con la lealtà
verso qualcosa che ci confuta, che ci nega, che ci offende: un inchino, una
sorta di epochè positiva, carica di senso. Comincia con la disponibilità
all’iniziazione, ovvero alla morte: una condizione interiore complessa proprio
perché si fonda sulla massima semplicità – sull’accettazione dell’evento così
com’è, con tutte le sue promettenti e strazianti contraddizioni. L’esperienza
religiosa inizia e finisce con la coniunctio oppositorum vissuta su
tutti i piani della personalità.
Jung ha
compreso perfettamente che il libro di Giobbe è la chiave d’accesso
all’esperienza religiosa biblica. Se Dio è una persona, avrà un’ombra e
un percorso individuativo, dall’io al Sé: e ciò avverrà attraverso il creato e
l’uomo, nella sympatheia o reciprocità della Misericordia, che fa
emergere i tratti di una Quarta Ipostasi, l’Eterno Femminino divino,
Sophia-Hokhmah, l’archetipo divino della Terra – e dunque di quel corpo
spirituale che è il piano dell’essere in cui ha luogo, in cui si invera
ogni coniunctio oppositorum.
L’antropomorfismo
degli dei è legato al loro statuto mediano, di immagini degli archetipi
supremi: in questo senso, è il politeismo ad essere, con i suoi idoli, davvero
antiidolatrico! Tuttavia il Dio unico abramico, che è sia un primus inter
pares, un Dio degli dei, sia l’eterna manifestazione personale del Divino
ineffabile, in questa oscillazione tra esoterico ed essoterico rischia
continuamente di suscitare l’idolatria somma, metafisica, di cui parla Corbin,
la confusione tra il Divino e l’Ens Supremum. Al tempo stesso, però, un Dio che
sconvolge così radicalmente il kosmos, l’ordine universale, che vuole il
mondo e ha bisogno dell’uomo per ricondurlo a sé, un Dio dunque che lancia un
appello drammatico alle anime – più degli dei ‘pagani’ e della gerarchia antica
tra religione essoterica e iniziazione misterica cerca di far sentire a
tutti e a ciascuno l’urgenza di trasmutare la terra in terra celeste, di manifestare
Sophia.
Il
monoteismo nasce come ‘divulgazione’ rivoluzionaria dell’esoterismo ‘pagano’.
Il culto mosaico ha chiare radici nell’eresia egizia di Akhenaton. Il suo gesto
originario, un gesto appunto di rottura, di esodo – uscita dalla patria in cui ethos
ed ethnos sono tutt’uno, distruzione degli idoli, dell’appartenenza ad
una religione civile, comunitaria – un gesto quasi ‘dionisiaco’, conserva nel
tempo la propria potenzialità eversiva, anche in senso negativo: di qui la
critica ‘pagana’ e ‘neopagana’ alla spiritualità semitica, di essere
dissolutrice, nemica dell’ordine sacro, terroristica.
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