Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 12 novembre 2013

Note post-junghiane




Il tema della corporeità spirituale è fondamentale per liberare l’esegesi scritturale di Jung dall’astrazione razionalistica degli studiosi di fenomenologia religiosa e dalla confusione epistemologica della New Age – due facce dello stesso approccio mutilato, parziale: l’immagine del versetto biblico non va privata della sua carnalità in direzione di una lettura intellettualistica o spiritualistica; l’immagine è corposa perché allude alla corporeità, sebbene si tratti di una corporeità spirituale, sottile, che è tuttavia più vivida e definita di quella terrena, non meno. La Bibbia parla della Terra in cui scorrono latte e miele, Giovanni a Patmos vede la Città cubica di diaspro, Muhammad non fa che recuperare questa visione immemoriale del Giardino delle delizie, della pienezza di tutti i sensi – e ciò va inteso in modo non allegorico, come se fosse segno di altro, di un’essenza separata, ma in modo simbolico, in quanto indica qualcosa di così reale che i nostri sensi e la nostra ragione attuali non sono in grado di afferrarlo. Dunque le condizioni di realtà – tempo, spazio, materia – non sono abolite dualisticamente nel mondo immaginale, ma viste ed esperite in modo più integrale, più completo. Così, ed è solo apparentemente paradossale, la pluralità di prospettive, il politeismo archetipico preserva l’unus mundus, l’uni-totalità, mentre il monoteismo unilaterale è di fatto dualistico, contrappone mondo e oltremondo, materia e spirito.

Rischi dell’approccio junghiano, evidenti ad esempio nell’esegesi simbolica di Drewermann: la storia sacra viene dissolta in uno spazio archetipico universale, impersonale, che la relativizza, considera la Scrittura qualcosa di secondario, un veicolo pressoché intercambiabile. Di fatto la Scrittura sacra è una condensazione di archetipi eterni nell’intersezione con un dato momento temporale, storico: tuttavia gli archetipi non possono che manifestarsi nel concreto, nell’individualità e nella comunità ispirate, non sono mai attingibili in quanto tali. L’esperienza religiosa non può mai uscire dal modo in cui le immagini si sono date all’uomo: può solo, ermeticamente, dissolvere le incrostazioni letteralistiche, vedere hillmanianamente in trasparenza – o ricevere, se a ciò si è destinati, un nuovo teatro della memoria, una nuova sintesi immaginale. Abramo non è un nome inessenziale dietro al quale vediamo la Paternità, la Fede, l’Intercessione etc.: per la maggior parte dell’umanità, sono queste idee eterne a presentarsi ‘dietro’ il nome di Abramo. Il nome, l’immagine, vengono prima delle idee: gli archetipi si danno in essi, non attraverso di essi.

Spessore culturale di ogni esperienza religiosa: proprio perché l’esperienza religiosa riguarda l’anima, e l’anima è immaginazione, e l’immaginazione è collettiva, è cultura. Come può un uomo d’oggi applicare a sé le immagini bibliche – pastorali, agricole, fondate su realtà un tempo vissute quotidianamente e oggi perdute, come l’ossequio a un re o a un padrone, la famiglia come piccolo stato etc.? Un esempio impressionante: tra le visualizzazioni ignaziane spicca lo llamamiento del rey, la cerimonia in cui si riceve dal re una missione cavalleresca. Un gesuita d’oggi ha consigliato di aggiornare l’esercizio spirituale immaginandosi davanti a un “grande capitano d’azienda”: difficile pensare a due situazioni più (spiritualmente, culturalmente) distanti...

 A volte si rischia di ‘usare’ gli archetipi per ‘spiegare’ un’esperienza religiosa. Ma la prima espressione di un’esperienza religiosa è sempre un rito, un’azione, che in quanto tale è inspiegabile: ha la ricchezza multidimensionale di un simbolo, di un evento che sta sulla soglia fra i mondi. L’esperienza religiosa comincia con la lealtà verso qualcosa che ci confuta, che ci nega, che ci offende: un inchino, una sorta di epochè positiva, carica di senso. Comincia con la disponibilità all’iniziazione, ovvero alla morte: una condizione interiore complessa proprio perché si fonda sulla massima semplicità – sull’accettazione dell’evento così com’è, con tutte le sue promettenti e strazianti contraddizioni. L’esperienza religiosa inizia e finisce con la coniunctio oppositorum vissuta su tutti i piani della personalità.

Jung ha compreso perfettamente che il libro di Giobbe è la chiave d’accesso all’esperienza religiosa biblica. Se Dio è una persona, avrà un’ombra e un percorso individuativo, dall’io al Sé: e ciò avverrà attraverso il creato e l’uomo, nella sympatheia o reciprocità della Misericordia, che fa emergere i tratti di una Quarta Ipostasi, l’Eterno Femminino divino, Sophia-Hokhmah, l’archetipo divino della Terra – e dunque di quel corpo spirituale che è il piano dell’essere in cui ha luogo, in cui si invera ogni coniunctio oppositorum.

L’antropomorfismo degli dei è legato al loro statuto mediano, di immagini degli archetipi supremi: in questo senso, è il politeismo ad essere, con i suoi idoli, davvero antiidolatrico! Tuttavia il Dio unico abramico, che è sia un primus inter pares, un Dio degli dei, sia l’eterna manifestazione personale del Divino ineffabile, in questa oscillazione tra esoterico ed essoterico rischia continuamente di suscitare l’idolatria somma, metafisica, di cui parla Corbin, la confusione tra il Divino e l’Ens Supremum. Al tempo stesso, però, un Dio che sconvolge così radicalmente il kosmos, l’ordine universale, che vuole il mondo e ha bisogno dell’uomo per ricondurlo a sé, un Dio dunque che lancia un appello drammatico alle anime – più degli dei ‘pagani’ e della gerarchia antica tra religione essoterica e iniziazione misterica cerca di far sentire a tutti e a ciascuno l’urgenza di trasmutare la terra in terra celeste, di manifestare Sophia.

Il monoteismo nasce come ‘divulgazione’ rivoluzionaria dell’esoterismo ‘pagano’. Il culto mosaico ha chiare radici nell’eresia egizia di Akhenaton. Il suo gesto originario, un gesto appunto di rottura, di esodo – uscita dalla patria in cui ethos ed ethnos sono tutt’uno, distruzione degli idoli, dell’appartenenza ad una religione civile, comunitaria – un gesto quasi ‘dionisiaco’, conserva nel tempo la propria potenzialità eversiva, anche in senso negativo: di qui la critica ‘pagana’ e ‘neopagana’ alla spiritualità semitica, di essere dissolutrice, nemica dell’ordine sacro, terroristica.


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