per
il Conte Zarganenko
Il titano Prometeo, “saggezza anticipatrice”,
colui che ha plasmato gli uomini, è la mente umana, demonica e non divina,
volta al futuro e all’esterno, sognatrice della potenza per impotenza. Nel mito
greco, come in quello indiano, gli dei hanno un legame di phthonos, un conflitto radicale con gli uomini, che trattano come
loro bestie sacrificali o comunque fonti di nutrimento: impastati di argilla
terrestre, attendono il fuoco celeste con la passività dei bruti, e uno
stupore-timore ancor più essenziale. Prometeo lo ruba per loro: il suo gesto è
di philanthropos, eppure danna gli
uomini, come quello del serpente nel racconto ebraico della Caduta. Possessore
del fuoco, della potenza divina, l’uomo espia per sé e per il cosmo: è il
sacerdote, il sacrificatore universale, dà la morte, ma può darla in modo da
rigenerare, da preparare la vittima mondana al fulmine che la divora, assume e
trasfigura.
Prometeo trasporta il fuoco in un narthex, un fusto cavo di silfio, pianta
afroditica e afrodisiaca, medicinale, abortiva: lo agitano le menadi nell’ebbrezza
dionisiaca, con una pigna instabilmente confitta sulla cima. In entrambi i
casi, abbiamo un chiaro simbolo dell’asse cosmico e del suo corrispettivo nel
microcosmo umano, la colonna vertebrale: un’altra sua immagine è quella della
canna vuota che si fa flauto, syrinx.
Peter Kingsley osserva che Parmenide usa il termine syringmos, sibilo simile a quello di un serpente o di un flauto,
per indicare il fischio emesso dalle ruote del carro che lo sta traendo dalle
tenebre alla luce della conoscenza: si tratta probabilmente di un termine
tecnico per l’avvio dell’esperienza estatica, affine al simbolo indiano del
risveglio della kuṇḍalinī, l’energia
divina immersa nel sonno dell’oblio e dell’inerzia, avvolta intorno alla base
della colonna vertebrale.
Per essere imago Dei, l’uomo sarebbe dovuto uscire dal dilemma: attesa passiva
del fuoco divino – furto del fuoco divino; avrebbe dovuto lasciare che
fiorisse, sprizzasse in lui come risposta al lampo celeste, nella sua forma
sensibile di luce e calore solari e nella sua forma sottile ed esoterica di spiritus mundi, agente della rigenerazione e trasmutazione dell’universo. Il
divino seme di luce, secondo la dottrina pitagorico-platonica, invece di
circolare liberamente nel cranio umano, manifestazione microcosmica della volta
celeste, si è appesantito ed è disceso lungo i centri sottili posti in
corrispondenza della spina dorsale, diventando immaginazione animale, sessuata,
sul piano invisibile e sperma feccioso sul piano grossolano. La pena che Zeus
impone a Prometeo è trasparente: un’aquila gli divorerà ogni giorno il fegato, che
però ricrescerà di notte. Il fegato è il ricettacolo della fantasia, ed ha un rilievo
profetico immenso, come mostra l’aruspicina etrusca: il giorno lo divora – l’uomo,
mente titanica, è scisso, il mondo dei sensi, dell’esperienza diurna lo
allontana dal mondo dell’immaginazione, mentre la notte ve lo riconduce con il
sogno, spezzando però la continuità della veglia.
L’alchimista sa che la stessa cosa è accaduta
agli esseri di tutti i regni della natura – animali, vegetali, minerali. Sa che
il fuoco divino, lo spirito divino, è il balsamo solare che va in direzione
contraria all’entropia, alla morte, è l’oro elementare sepolto come un seme in
ogni cosa. Se l’uomo è in una posizione mediana e mediatrice, sacerdotale,
anche attraverso il rito (la teurgia) della generazione, i minerali sono
immersi in un oblio mortale, in un tamas
profondo, la loro vita si è bloccata, sono simili a escrementi, ad anime
contratte nel tempo e nello spazio dannati degli inferi. L’artista ermetico
cerca il seme aureo, la fonte d’acqua luminosa e vivificante nascosta all’interno
del metallo, così affine all’uomo e alle sue titaniche passioni: come racconta
Massimiliano Palombara, l’autore della Porta Magica, nessuno riesce a trovare
la grotta da cui nasce la fonte mercuriale perché la sua entrata è ricoperta di
canne e di rovi. Anche qui, il fuoco
divino è nascosto da e in una canna, immagine della colonna vertebrale, del
flauto, del serpente sibilante. Il marchese Palombara ricorda come però, al suo
passaggio, gli zeffiretti della
primavera agitassero misericordiosamente le canne, consentendogli di
intravedere la prodigiosa caverna. Anche qui, un fischio, una vibrazione
leggera, udibile in modo sottile, segnala un sottile risveglio: la kuṇḍalinī si svolge e comincia la
risalita (platonicamente l’epistrofè,
il ritorno); il flauto, sospirando di nostalgia, stabilisce un legame erotico
con l’unità divina da cui l’uomo è stato esiliato (nella mistica persiana il
flauto, il ney, è l’anima umana che,
simile ad una canna strappata dal suo canneto, lamenta l’assenza e, cantandone
il lutto, la valica consumandosi) – l’energia serpentina, mercuriale, il seme
solare e aureo latente nel metallo si sprigiona, risponde al richiamo d’amore,
al magnetismo profondo che compagina l’universo. Come Ercole libera Prometeo
dalla sua pena, dal suo samsara
purgatoriale-infernale, così l’operatore ermetico, armato dei suoi strumenti e
della sua volontà, della sua fede, redime il portatore del fuoco, il frammento
di materia spirituale, di terra celeste crocifisso nelle solitudini della
caduta.
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