Uno dei tratti apocalittici (arco pontificale sospeso al di sopra e al
di sotto del tragico, tra l’occlusione infernale e il lampo che dischiude il
Regno) delle città sante come Roma e Gerusalemme è l’immane accumulo di
passato, la giustapposizione e l’intrico onirico e polveroso di strati del
tempo, che imprigiona, opprime, comprime, ottunde fino al comico puro l’anima
incarnata – a meno che il buio della memoria dannata non sia penetrato dalla
sbrodolatura di uno sperma visionario, da un ruggito di luce tra le dune o gli
sterpi della sterilità interminata. Così pure, congiunto al primo, il ritardo,
la dilazione (forse oltre ad Amor, il nome esoterico di Roma è Mora, delay), manifesta nell’imputridimento degli struldbrug alle fermate
degli autobus, nei borborigmi rabbiosi del metallo animato ai semafori – a meno
che la visione non l’accenda in attesa,
attesa di Pietro II, dello spianarsi dei Colli, del fiorire dei sobborghi, del
Rex tremendae majestatis.
L’adultera deturpa, distrugge l’onore del suo sposo (onore che lei
stessa, che il suo stesso corpo è): ma questo sfregio, questa ferita, apre lo
spazio e il tempo della teshuva,
della reciproca conversione, il rinnovamento del patto spezzato, della Tavole
della Legge spezzate – stavolta senza garanzia esterna, in nitido e mortale
orientamento all’amore divino.
L’adulterio mitico è metafora della genialità (soprattutto le molte
avventure di Zeus Padre), o comunque della rottura dei vincoli, del consueto. Gli
arcana naturae sono comici quando si manifestano nella loro ambivalenza
originaria. Il lutto stretto di Demetra si scioglie quando Baubo le mostra la
matrice, l’origine du monde; gli olimpici ridono quando vedono
Ares, l’irruente, immobilizzato (già lo era stato in parte da Afrodite, vedi
quadro di Botticelli) e l’irretitrice Afrodite irretita dalla finissima rete di
rame del suo sposo legittimo (Efesto è il sale, arguto e sacerdotale, in cui si
cristallizzano, congiunti, lo zolfo maschile e il femminile mercurio).
Ambivalenza archetipica dell’adulterio: kerata poiein, “fare le corna”; il tradito è becco,
deve conquistare la propria donna nella lotta primaverile (keras, corno, è legato a krios, l’Ariete, il Cornuto, marziale,
inaugurale, sacrificale. L’Era dell’Ariete è l’eone del maschio cornuto, Mosè e
Alessandro). Il corno si rinnova, è corpo sottile: la porta di corno è quella
dei sogni veridici. A Roma si dice: le
corna so’ come li denti, fanno male a spuntà, ma poi ce se magna. La
metafora della crescita dolorosa dei denti è usata da Platone per lo spuntare
delle ali erotiche dell’anima. Con la suggestione dell’adulterio l’eros vola
nel mondo delle immagini: la gelosia è testimone del pericolo mortale che
l’amore attraversa sulla terra, perché possiamo amare solo ciò che rischiamo di
perdere – o che abbiamo di fatto perduto.
Chi
nasce da un adulterio è figlio della
Tyche come Edipo, uno sradicato, leggero e quindi maledetto (qalal, maledire, in ebraico vuol dire
“rendere leggero”), ma anche agile e baciato dalla fortuna come un picaro, un
vero figlio di puttana.
Nessun commento:
Posta un commento