Nello Zohar si legge che all’uomo, affinché si
mantenga sempre maschio-femmina secondo il disegno originario, sono date due
spose: quella visibile, terrestre, e quando non può accostarsi a lei, la
Shekhinah stessa, che gli si fa presente nello studio e nella meditazione. Nel
passo che commenta il versetto del Cantico Ponimi come un sigillo sul tuo
cuore (8,6), si osserva come in questo caso, contro la consuetudine, sia la
donna (sefirah Malkuth) a corteggiare l’uomo (sefirah Tif’reth, YHWH); tuttavia
ciò accade sempre attraverso gli tzaddiqim, i giusti – ovvero con la
mediazione della sefirah Tzaddiq, Yesod, il Patto nella carne, l’Eros
cosmogonico, il Fallo.
La Iggeret ha-Qodesh (Lettera della santità) cita il brano del trattato
talmudico Berakhoth in cui R. Yochanan ben Zakkai mostra la propria
bellezza all’uscita dei bagni rituali (per la purificazione delle donne) affinché,
ricordando il suo volto, le spose di Israele concepiscano figli perfetti. È un
vero e proprio atto teurgico, che però può essere compiuto solo da chi sia
“discendente di Giuseppe”: solo chi non ha “messo gli occhi” sui beni altrui
(la moglie del suo benefattore Potifarre) può sfuggire all’Occhio maligno, al
malocchio (ma anche a quel “guardare con desiderio” di cui parla Gesù nel
Discorso della Montagna). La bellezza dello Tzaddiq, del santo, è uno specchio
divino, media come l’arcobaleno, come Yesod.
La donna che concepisce un figlio perfetto pensando al bel
volto di R. Yochanan non sta esattamente cullando la “pazza idea” della celebre
canzonetta: l’immagine contemplata accede nel cuore – ovvero nella memoria e
nell’immaginazione – spogliata di ogni riferimento accidentale (passionale), la
passante di Baudelaire o il passante del Talmud possono nutrire e fecondare il temenos nuziale senza ferirne la qinah, la benedetta “gelosia”. Nell’atto
sessuale si uniscono due mondi, ognuno dei quali è fecondo proprio perché è già
un mondo di conoscenze organicamente acquisite, ovvero, biblicamente, di atti
erotici consumati con le immagini e le cose dell’universo comune.
Nella Iggeret si legge che il seme discende dal
cervello, ovvero dal piano sefirotico di Chokhmah e Binah, il Padre e la Madre,
Sapienza e Intelligenza. Anche nel Timeo Platone accenna appena ad
elementi di fisiologia spirituale molto arcaici: il seme è l’energia dell’anima
intellettuale che nel cervello si muove circolarmente come nei cieli, mentre
discendendo, a causa della passione, lungo la colonna vertebrale (l’axis
mundi), si raccoglie in forma di fecce materiali (in cui tuttavia giace una
scintilla luminosa e divina) nella parte del corpo sottile dominata dalla
potenza psichica inferiore, l’epithymia, che cerca di scaricarsi all’esterno
(come il desiderio letteralizzato genera karma, destino oscuro che ci
raggiunge dall’esterno). Nel tantrismo il seme viene chiamato bodhicitta,
“il pensiero del risveglio”, l’attenzione spirituale: il motore di ogni
immaginazione, di ogni pneuma psicofisico. Il sufi iranico Najm al-dīn
Kubrā dice che il coito (wasl)
tra maschile e femminile, in senso come sempre spirituale-fisico, genera la himma,
ovvero la “creatività immaginale”: la capacità di creare in quanto specchi di
Dio, distinti dalla propria opera eppure tutt’uno con essa (come avviene con la
generazione del figlio carnale).
Nella pratica tantrica (l’icona del)la Devī con cui si celebra
il rituale erotico (culminante nella “immobilizzazione del seme” o nel suo
riassoribimento a ritroso, vera e propria epistrofè psico-fisica) è una
fanciulla dotta, istruita nelle scienze sacre: ma proprio il carattere gnostico
della maithuna (il coito tantrico) la allontana (sia lei che la maithuna,
ovviamente) dal rituale nuziale configurato nella Iggeret (e nei Veda).
Tuttavia, si può suggerire un ampliamento di prospettiva che
è anche un tertium. Il coito tantrico è un modo per rendere salvifico
ciò che solitamente, compiuto senza attenzione spirituale, è fonte di sempre
maggiore coinvolgimento nella dispersione samsarica. Ma forse il karma
si può bruciare (e quindi consumare) non solo con la tecnica del coitus
reservatus, ma anche con il rito nuziale, che rende psicologicamente e
spiritualmente (e forse fisicamente) feconda un’azione, l’emissione seminale,
che di per sé, senza tale consapevolezza, aumenterebbe i debiti karmici, la
concupiscenza.
Il rito nuziale è lunare: costruisce la comunità, riporta in
vita gli antenati, introduce nel samsara un principio di epistrofè.
Il rito gnostico – della maithuna – è solare: mira a moksha, alla
liberazione totale, alla trasmutazione del corpo sottile. Tuttavia, proprio per
questa chiara complementarità simbolica, il dinamismo del Caduceo non deve mai
venir meno fra il coito solare e il coito lunare: la luna riflette il sole
nella notte terrestre, distilla dalla sua luce nutrimento e vita. In questo
senso, amplificando, nel rito nuziale, lunare, la parte della donna è
addirittura preponderante (mentre la dotta Devī del rito gnostico è, a ben
vedere, in una posizione di maggiore passività e impersonalità): tuttavia lo è
proprio in modo lunare, e di una lunarità che rischia di farsi tanto più
umbratile, indiretta, remota, quanto più si afferma in modo letteralistico il
modello profetico-paterno, il matrimonio come unico fondamento della comunità.
Nella nostra epoca si stanno rimescolando gli arcani, le declinazioni dell’archetipo,
e la presente fluidità dei ruoli “di genere” anche e soprattutto all’interno
della famiglia (una famiglia con un temenos sempre meno geometrico)
sembra alludere a una possibile e inedita modalità di coniunctio, di cui
ancora riusciamo solo a intravedere qualche lineamento, qualche tratto confuso.
Come sempre nei tempi di dissoluzione si aprono porte, passaggi, mandorle
mistiche insperate, in cui il singolo, la singola coppia, sapendosi e
sentendosi manifestazione prospettica di un’anima che è sempre comune, compie
il proprio esperimento, il proprio opus, muovendosi ermeticamente lungo
confini minacciati e promettenti.
Ibn Arabi insegna che esistono due Coppie, che sono in
realtà una: l’Uomo è il ‘doppio’ di Dio, che Egli ama perché Suo specchio,
creato nella Sua forma; la Donna è il ‘doppio’ dell’Uomo. È così posta la triade:
Dio, Uomo, Donna; come l’Uomo tende verso il suo Signore, che è la sua origine,
così la Donna tende verso l’Uomo, sua origine.
Solo nella donna l’uomo conosce se stesso, ovvero la sua
anima, e quindi il suo Signore (man ʻarafa nafsahu ʻarafa rabbahu).
Quando l’uomo si unisce alla donna, sperimenta il fanā’ (l’estinzione) in
Dio: la successiva abluzione glielo ricorda. Contemplare Dio nella donna è per l’uomo la contemplazione suprema, perché in
lei Lo contempla insieme come attivo e passivo. “Le donne” manifestano la
Natura universale, che è una cosa sola con il Sospiro del Misericordioso.
L’uomo, in quanto portatore della determinazione, della
forma, media tra la femminilità dell’Essenza divina sovraformale e la
femminilità della Donna tratta da lui. La prevalenza esoterica è del femminile
(bāṭin, “esoterico”, è
legato a baṭn,
“ventre”), sebbene sul piano giuridico, ẓāhir, la donna sia inferiore di
un grado rispetto all’uomo. (Ambiguità costitutiva del maschile: la forma come
idea, come attività, come principio che feconda la passività, la ricettività
della materia; la forma come essenza che è una prospettiva, una sezione, un’astrazione
dall’Unicità dell’Esistenza, femminile).
Anche lo studio, l’iniziazione maschile ha questo statuto:
lo Zohar, in quanto tale, è ancora lettera del sod (il piano esoterico), non è il sod
del sod. La donna è l’esoterico, lo porta,
lo incarna, lo manifesta: ma per accedere a questa intuizione deve spezzare
dionisiacamente i lucchetti della sua santificazione, della consacrazione a cui
la sottopone l’idea patriarcale.
Nel rapporto erotico ciascun attore mira a ricostituire l’androgino,
a diventare un mondo: l’uomo cerca di
spezzare l’orgoglio rabbioso della propria debolezza essenziale riparando nella
ferita della devozione amorosa; la donna cerca di trovare una determinazione,
un contenitore per la propria universalità, per la propria immaginazione
profetica, combattendo con il limite offerto e rappresentato dalla virilità.
Così, oltre lo specchio della morte, ogni anima è mondo a sé, ma il suo corpo
sottile è nato dall’eros vissuto, dalla ‘conoscenza’ (nella uni-duale accezione
biblica) reciproca, dall’unione con un altro, con l’altro.
Nella vita terrestre la coppia sponsale è come la coppia dei
Cherubini sull’Arca dell’Alleanza: si guardano negli occhi, ma al contempo
guardano l’Arca, la sorvegliano; si protendono l’uno verso l’altro senza
toccarsi, ma si innalzano dallo stesso fondamento, il coperchio dell’Arca, la Kapporet o sede della riconciliazione.
Oltre la morte, nella tomba che è il mondo delle immagini, la coppia è come
quella del sarcofago etrusco di Villa Giulia: gli occhi di entrambi sono volti
all’Aperto, e i corpi giacciono distesi su un unico letto, lo stesso giaciglio
per lo stesso banchetto di luce.
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