Il denaro
è il vero attore, anonimo e impersonale, dell’Era dei Pesci: sangue del Povero,
di Cristo, secondo la parola di Bloy, potenzialità effervescente e maledetta
del desiderio, non più eros personalmente attaccato al volto e al corpo delle
cose, ma dominio vampiresco delle astrazioni mimetiche, delle parole d’ordine e
delle suggestioni collettive. Gesù sapeva che tutto si sarebbe giocato intorno
al piccolo sole tascabile della moneta: i suoi detti canonici ed apocrifi
abbondano di metafore monetarie, soprattutto finanziare – il cambio, commercio
del denaro, è il trionfo della magia mondana, perché finge di mercificare ciò
che in tal modo si pone sempre più imperiosamente come misura del valore,
sottratto alla deperibilità del grano e della carne, nonché alla sua stessa
materialità metallica.
Quando i
dottori ebrei interrogano Gesù sul pagamento dell’imposta di capitazione
romana, gli gettano una rete da cui non si può uscire, se non trasfigurati e
risorti: chi non paga il census capitis
perde il caput, la testa; chi lo paga
con-tribuisce al nutrimento e alla crescita della Bestia coronata, è dunque un
traditore del popolo sacerdotale. Lo strano maestro galileo, con sublime
ironia, si fa consegnare dagli interroganti il denarius romano. L’aria ronza di echi simbolici, di cupi presagi:
imposta di capitazione in aramaico è gulgalta, “testa”,
“teschio” – probabilmente lo stesso nome dell’altura alle porte di Gerusalemme
dove venivano eseguite le condanne a morte, il Golgota della tradizione
cristiana. Gesù dissolve il feticcio della moneta e il rigido dilemma binario
insinuato dalla domanda, chiedendo a sua volta (gli ebrei rispondono sempre con
una domanda!) di chi siano l’immagine e l’iscrizione sul denarius. Il denaro (significativo che il termine italiano derivi
dalla moneta usata appunto per il testatico romano) non è un fatto di natura, è
un atto, e un atto squisitamente magico: proiettando l’immagine di una testa regale (il princeps romano si faceva effigiare incoronato d’alloro e con la
qualifica di pontifex maximus) e di
alcuni simboli politico-religiosi su un disco di metallo nobile, ed entrando
nelle borse dei privati, costituisce la circolazione sanguigna di un imperium, di un complesso di potere che
mira alla flessibile solidità di un organismo vivente. La parola immagine, eikon, è anche la traduzione del biblico
tzelem, l’ombra, il riflesso,
l’immagine divina che è il paradigma della creazione di Adamo; ma soprattutto
la parola iscrizione, epigraphè,
oltre ad alludere in qualche modo alla Scrittura, ritorna poco oltre nel testo
evangelico (versioni di Marco e Luca) – è il cartello d’infamia che il
procuratore Ponzio Pilato fa affiggere sulla croce del galileo, piantata sul
colle del Cranio di Adamo, Golgota o Gulgalta (oppure colle delle pene capitali), cartello il cui acrostico
quadrilittero farà fremere gli ebrei presenti, suggerendo loro forse il santo
Tetragramma. Si apriva il nuovo eone, sotto le insegne del denaro, del sangue
effuso, del gioco finanziario come metafora pericolosa del pari della fede, che nella sua forma mondana più alta avrebbe, nel
corso dei secoli, vampirizzato e cannibalizzato gli aspetti militari dell’imperium, retaggio dell’Età dell’Ariete.
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