Le
prime righe delle Mille e una notte sono scandite dalla rima -an,
che in arabo indica il nominativo duale: il libro inizia dunque sotto
il segno della dualità, del rispecchiamento, della complementarità
asimmetrica. I due sovrani fratelli, Shāhzamān
e Shāhrīyār,
hanno avventure parallele, con esiti simili eppure inconfondibili.
Entrambi manifestano l'archetipo del maschile: fragile, vincolato
alla parola esterna, scritta o comunque solennizzata, del giuramento,
del patto; assetato di garanzie, di puntelli, davanti alla
meravigliosa mostruosità del mondo, alle profondità attraenti e
inquietanti del mistero divino. Shāhzamān,
“sovrano del tempo”, è il maschile sottratto al tempo, anche se
già scisso, unilaterale, esiliato dall'androginia delle origini.
Quando scopre il tradimento della moglie con il servo negro, la
uccide: l'infedeltà viene colpita da una parola regale, legale, da
una spada discriminante, e la ferita, il vulnus del mondo si
richiude, l'angoscia per l'ordine minacciato, periclitante, si placa.
Shāhrīyār,
invece, “sommo sovrano”, non sa richiudere la ferita, che
sanguinando chiede altro sangue versato: la serialità delle nozze
mortali (la sposa decapitata dopo la notte della consumazione) è la
ruota d'Issione della psiche del re, la maschilità tradita avvia il
ciclo samsarico della violenza riparatrice che non ripara ma
approfondisce le dimensioni e la gravità della piaga. Il re ha visto
la donna, il mondo, la molteplicità, dall'alto del suo trono: ma
cosa ha davvero colto il suo sguardo? Immondizia, infamia: una regina
che si trastulla con gli schiavi, la divina Shekhinah che si
compiace del fango mondano, che mostra il volto terribilmente
iniziatico della prostituta gnostica. L'archetipo maschile irrigidito
nell'unilateralità decapita il femminile, lo riduce a presenza
corporea passiva e muta.
Colei
che curerà il re e il regno è Shahrazād:
l'assonanza tra i nomi è significativa ma ingannevole, perché
Shāhrīyār
è re (shāh),
mentre la figlia del vizir è “la liberazione della città
(shahr)”. Ha letto tutti i libri della biblioteca paterna,
ora si fa alveo e letto di quel fiume di parole e narrazioni,
portandolo nel palazzo reale, nel talamo del suo signore: ogni storia
viene captata nell'aria avvolgente dell'anima comunitaria, il
discorso infinito delle generazioni (“mi è giunta voce”, “si
narra”). Il racconto notturno, la parola femminile, è l'opposto
complementare di quella diurna, maschile: differisce la morte,
traccia un labirinto, mostra una sala di specchi che alla fine si
svela essere una matrice, feconda ed elusiva insieme – la māyā
che crea e irretisce, che offusca e libera. Il maschile unilaterale,
caduto, malato, può essere curato solo dalle amplificazioni
gnostiche, dalle narrazioni che, come i midrashim ebraici,
fanno parlare i vuoti della Scrittura, aprono una bocca oscura e
maliosa, una radura di allusioni, nell'intrico apparentemente
continuo della rivelazione profetica: così Sofia è ricollocata
nella sua posizione centrale e mediatrice, la posizione dell'anima e
dell'immaginazione. Ricordiamo che alla coppia dei fratelli sovrani
corrisponde la coppia delle sorelle del vizir: i racconti di
Shahrazād sono rivolti al
re alla presenza di Dunyāzād,
“liberatrice del mondo”; la parola notturna viene consegnata a un
uomo, che la visione del tradimento ancora ossessiona, e a una donna
che è pura testimonianza e presenza, che filtra le correnti sottili
in un silenzio di per sé terapeutico, immagine di mite fermezza, di
costanza e attenzione.
Alla
fine il maschile, malato di unità, si riconcilia con la molteplicità
femminile, con la māyā
che è matrice e restituisce al mondo l'armonia di vita e conoscenza.
Le nozze sono feconde, dopo tre anni di terapia notturna il regno
risorge con tre figli, tre principi luminosi scaturiti dalla tenebra.
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