Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 19 novembre 2013

Note sul racconto-cornice delle Mille e una notte



Le prime righe delle Mille e una notte sono scandite dalla rima -an, che in arabo indica il nominativo duale: il libro inizia dunque sotto il segno della dualità, del rispecchiamento, della complementarità asimmetrica. I due sovrani fratelli, Shāhzamān e Shāhrīyār, hanno avventure parallele, con esiti simili eppure inconfondibili. Entrambi manifestano l'archetipo del maschile: fragile, vincolato alla parola esterna, scritta o comunque solennizzata, del giuramento, del patto; assetato di garanzie, di puntelli, davanti alla meravigliosa mostruosità del mondo, alle profondità attraenti e inquietanti del mistero divino. Shāhzamān, “sovrano del tempo”, è il maschile sottratto al tempo, anche se già scisso, unilaterale, esiliato dall'androginia delle origini. Quando scopre il tradimento della moglie con il servo negro, la uccide: l'infedeltà viene colpita da una parola regale, legale, da una spada discriminante, e la ferita, il vulnus del mondo si richiude, l'angoscia per l'ordine minacciato, periclitante, si placa. Shāhrīyār, invece, “sommo sovrano”, non sa richiudere la ferita, che sanguinando chiede altro sangue versato: la serialità delle nozze mortali (la sposa decapitata dopo la notte della consumazione) è la ruota d'Issione della psiche del re, la maschilità tradita avvia il ciclo samsarico della violenza riparatrice che non ripara ma approfondisce le dimensioni e la gravità della piaga. Il re ha visto la donna, il mondo, la molteplicità, dall'alto del suo trono: ma cosa ha davvero colto il suo sguardo? Immondizia, infamia: una regina che si trastulla con gli schiavi, la divina Shekhinah che si compiace del fango mondano, che mostra il volto terribilmente iniziatico della prostituta gnostica. L'archetipo maschile irrigidito nell'unilateralità decapita il femminile, lo riduce a presenza corporea passiva e muta.
Colei che curerà il re e il regno è Shahrazād: l'assonanza tra i nomi è significativa ma ingannevole, perché Shāhrīyār è re (shāh), mentre la figlia del vizir è “la liberazione della città (shahr)”. Ha letto tutti i libri della biblioteca paterna, ora si fa alveo e letto di quel fiume di parole e narrazioni, portandolo nel palazzo reale, nel talamo del suo signore: ogni storia viene captata nell'aria avvolgente dell'anima comunitaria, il discorso infinito delle generazioni (“mi è giunta voce”, “si narra”). Il racconto notturno, la parola femminile, è l'opposto complementare di quella diurna, maschile: differisce la morte, traccia un labirinto, mostra una sala di specchi che alla fine si svela essere una matrice, feconda ed elusiva insieme – la māyā che crea e irretisce, che offusca e libera. Il maschile unilaterale, caduto, malato, può essere curato solo dalle amplificazioni gnostiche, dalle narrazioni che, come i midrashim ebraici, fanno parlare i vuoti della Scrittura, aprono una bocca oscura e maliosa, una radura di allusioni, nell'intrico apparentemente continuo della rivelazione profetica: così Sofia è ricollocata nella sua posizione centrale e mediatrice, la posizione dell'anima e dell'immaginazione. Ricordiamo che alla coppia dei fratelli sovrani corrisponde la coppia delle sorelle del vizir: i racconti di Shahrazād sono rivolti al re alla presenza di Dunyāzād, “liberatrice del mondo”; la parola notturna viene consegnata a un uomo, che la visione del tradimento ancora ossessiona, e a una donna che è pura testimonianza e presenza, che filtra le correnti sottili in un silenzio di per sé terapeutico, immagine di mite fermezza, di costanza e attenzione.
Alla fine il maschile, malato di unità, si riconcilia con la molteplicità femminile, con la māyā che è matrice e restituisce al mondo l'armonia di vita e conoscenza. Le nozze sono feconde, dopo tre anni di terapia notturna il regno risorge con tre figli, tre principi luminosi scaturiti dalla tenebra.

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