Cappuccetto
Rosso è l’anima semplicetta, che sa nulla,
bianca e innocente come Kore, come lei predestinata alla morte e alla regalità,
che la mantellina sanguigna e il conseguente nome iniziatico annunciano. La Madre,
il mondo, la invia oltre il bosco – dunque oltre la materia, oltre se stessa in
quanto mater, negli inferi – a
sostentare la nonna – morta e assunta
al piano supremo di dea otiosa.
Durante la catabasi, mentre coglie fiori come la figlia di Demetra, ovvero
mentre è colta dallo stupore per la
psiche vegetale sognante in cui si rispecchia, la insidia il Lupo, il tempo
divoratore, il volto distruttore della morte, animale sacro ad Apollo Iperboreo.
Il Lupo mangia la nonna: quindi la dea, l’antenata morta a cui si reca la
propria offerta si manifesta all’inizio come una bocca spalancata, affamata,
l’abisso che riprende in sé le anime, l’unità tenebrosa e annientatrice.
Tuttavia, nel ventre iniziatico della morte nonna e nipote, dio e uomo si
congiungono intimamente: finché non arriva, nella consumazione dei tempi, un
cacciatore, un mediatore gnostico ed ermetico, che squarcia il ventre oscuro
del tempo e della morte e fa riemergere l’anima e il suo angelo, rinnovate,
risorte. Al tempo cosmico, al Lupo, resterà in corpo solo il caput mortuum, un residuo pesante e grossolano,
che lo farà cadere a terra, sprofondare sotto il suo stesso peso. Il secondo
assalto del Lupo, la cosiddetta seconda morte, che attende l’anima dopo il
periodo intermedio di purificazione, viene facilmente sventato dall’azione
congiunta dell’anima-fanciulla e dell’anima-nonna, insieme identificate con
Persefone, regina dei morti, giovane come il rinnovamento perpetuo che la morte
offre, antica come le archai, i
princìpi dell’universo. Il Tempo-Morte sente odore di carne, ma s’inganna,
perché l’anima ha ormai un corpo sottile, un veicolo di materia spirituale: così il Lupo cade in un mastello pieno d’acqua
e affoga, ovvero il tempo e la morte affondano nell’acqua, oltre la superficie
dello specchio che separa-unisce il cosmo visibile dal mondo immaginale, il
nono cielo dall’Empireo.
Quanto più
ciecamente continueremo a condannare le bestie ad homines, tanto più inesorabilmente e tenebrosamente saremo
condannati ad metalla, al veleno
vendicatore dell’inorganico, del minerale, in pozzi di patimento sempre più
profondi.
Attraverso l’eros
generiamo nella bellezza (Simposio,
discorso di Diotima). Bellezza, per Platone, è la manifestazione sensibile dell’idea
intellettuale sovrasensibile. Dunque ciò che di fatto concepiamo nell’eros è il
nostro corpo spirituale, la manifestazione sensibile sottile dell’anima
invisibile. Ogni atto di conoscenza, osserva von Baader, è un atto erotico: ma
perché sia fecondo le facoltà devono essere pulite e aperte, e dunque protette
dall’ascesi (Florenskij ricorda che l’ascesi è philokalia, amore del bello, e mira a rendere belli, cioè integri,
non “buoni”).
Nella morte generiamo
noi stessi in piacere e pena, e diventiamo il figlio che generiamo.
Un sonetto
minore del Belli riesce a cogliere meglio di qualunque altra meditazione, con
la sgangherata ribalderia di un fulmen in
clausula, il lacerante e comico paradosso della coscienza cristiana:
coscienza di pagani convertiti, che restano interiormente legati alle tradizioni,
ai luoghi, per i quali la fede è per lo più la fides, la fedeltà ai mores
maiorum, e assai poco la pistis
neotestamentaria, la revolutio
scatenata da un racconto di salvezza, che recide vincoli familiari, nazionali,
religiosi.
Nella antica festa
liturgica della Circoncisione del Signore al cristiano era data una delle poche
occasioni per ricordarsi che Gesù era ebreo. Il popolano del sonetto rievoca
gli eventi sacri con il piglio brusco e saporoso della biblia pauperum: infine ricorda come il Salvatore del mondo, a
trent’anni, abbia ricevuto il battesimo dal cugino Giovanni “in cuer tevere
granne der Giordano”. La riflessione finale è la voce del pagus, la voce del sangue e dei morti:
In cuanto a cquesto
è vero che er regazzo
venne a la fede
e sse fesce cristiano:
ma le ggirelle
io nu le stimo un cazzo.
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