Il testo che segue è stato pubblicato nel
libro: Francesco Parisi, Opere grafiche dalla
raccolta del Museo dell’Opera di Guido Calori, 2013.
Or
zarua‛ la-saddiq, insegna il Sefer Zohar,
il Libro dello Splendore Radiante, tesoro aperto e sigillato
della mistica ebraica: “la luce è stata seminata per il giusto”; la luce del
Primo Giorno della
creazione, inafferrabile ai sensi carnali offuscati, alle menti contratte e
immiserite, è stata disseminata,
dispersa per il giusto, per lo saddiq, nel mondo futuro, nel tempo dell’attesa e dell’attenzione
messianica. In principio è una diaspora
(una disseminazione) della Luce: la
Genesi è
un cammino accidentato per l’esegesi rabbinica, perché le cose prime sono un
abbozzo delle cose ultime,
realizzate insieme da Dio e dall’uomo, dal cielo e dalla terra, nella
quotidiana teurgia dei precetti
sacri.
Il
giusto, lo saddiq, è infatti il pilastro che regge l’universo, che consente
il dialogo tra l’alto e il
basso: fra le dieci manifestazioni supreme di Dio, le sefirot,
la nona è Yesod, il Fondamento, o Saddiq,
il Giusto, il Benefico, il Santo. Così, nel ritmo delle generazioni, la
creazione è mantenuta in
esistenza da alcuni giusti nascosti, velati dalla loro umiltà, sigillati da un
giuramento, da un patto eterno
– Trentasei Giusti, secondo il numero simbolico che la tradizione estrae da un
versetto di Isaia
(1).
Il
cabbalista che più amorosamente ha seguito le tracce della luce dispersa, i
sentieri della sua diaspora,
è stato forse Yishaq Luria. Nei suoi scritti densissimi, così simili a
narrazioni gnostiche passate
nel vaglio fitto e inesorabile della dialettica ebraica, leggiamo che En Sof,
il Senza Limiti, il
Divino anteriore a ogni determinazione, si è contratto (simsum),
ha aperto nella propria infinità uno
spazio vuoto (vuoto di Divino) affinché l’universo potesse esistere,
letteralmente potesse aver luogo.
Secondo Luria, nel seno dell’En Sof si ‘incidono’ i confini di questo spazio
primordiale, il tehiru: come le lettere della Torah sul monte Oreb; come i
caratteri dell’alfabeto sacro con cui Dio ha
creato le cose. Il primo gesto di differenziazione, di determinazione nel
Divino è un’incisione.
Con
il tehiru, lo spazio primordiale, caotico, si apre la possibilità di
un mondo: con il tehiru si apre
la breve serie di incisioni che Francesco Parisi ha dedicato al mistero dei
Trentasei Giusti, i
Lamed Waw. L’immagine iniziale fa emergere con intensa sobrietà lo sfondo
archetipico immutabile
della turbolenta narrazione lurianica: il tehiru
è circolare, caotico, femminile; è l’enigmatico
tohu della Genesi, il senza-forma che lascia intravedere, in
controluce, il profilo della serpentessa
babilonese, Tiamat, il drago originario da cui Marduk ha tratto i cieli e la
terra. La femminilità
genesiaca è una diade di corpi femminili nudi, che si toccano sprofondati nel
sonno indifferenziato
anteriore alla parola discriminatrice e ordinatrice di Dio, al fiat da
cui sprizza la luce.
Ai suoi piedi, nella parte inferiore dell’abisso, striscia il drago, il
serpente, freddo e umido all’apparenza,
carico di potenza distruttrice – e, come Tiamat, fonte sigillata della materia
che Dio e
il Giusto utilizzeranno nella loro comune opera di trasmutazione e
rigenerazione, l’opera che finalmente
farà del mondo un cosmo, e che Luria chiama tiqqun.
Nelle
tre incisioni successive, che costituiscono la serie vera e propria, il tempo
dell’attesa si dispiega
nei suoi momenti essenziali, mischiando e permutando un minuscolo mazzo di
arcani, con una
discrezione nella manipolazione degli strumenti simbolici che ne esalta l’essenziale
ricchezza. Anzitutto,
lo shofar, il corno d’ariete, che la tradizione ebraica fa risalire
al montone rimasto impigliato
fra gli arbusti del monte Moria, sostituto di Isacco sull’altare. Il corno
ritorto, simile al vortice
della creazione, alla spirale del tempo, apre l’anno liturgico, il rinnovamento
periodico del Giubileo
e quello definitivo della redenzione messianica: viene suonato per risvegliare
i dormienti, i
morti, ovvero le scintille della Presenza divina, la Shekhinah, sommerse nel
lungo sonno della galut, l’esilio o diaspora dell’universo. L’insistenza sullo shofar ricorda
l’immagine sul frontespizio di
uno dei capolavori dell’ermetismo occidentale, il Mutus Liber,
dove un angelo soffia in una tuba per
destare Giacobbe addormentato sulla pietra
– per destare le pietre della terra
e trasformarle in sostanza
celeste. Le incisioni di Parisi sono un Mutus Liber ridotto all’osso, una
pietra graffiata nel
deserto del tempo, un fossile, una scheggia della pre-eternità scagliata sull’abisso
che separa e congiunge
la Genesi e la Resurrezione.
I
Giusti di Parisi sono anime e corpi nudi. La nudità è un segno ambiguo nella
Torah: indica la privazione
di gloria, la distruzione, l’umiliazione. Il verbo ‛arah,
denudare, spogliare, significa anche
effondere, svuotare, esporre al pericolo. Isaia dice, del Servo di Adonai, del
redentore silenzioso
e disprezzato, Giusto nascosto: “Poiché ha esposto nuda (he‛erah)
l’anima sua alla morte”
(53, 12). Secondo alcuni esegeti, è da qui che prenderebbe le mosse il paolino ekenosen, l’idea
dello svuotamento, dell’annientamento volontario di Cristo. Il giusto si
espone all’abisso, si denuda,
è un geroglifico di carne che oscilla fra cielo e terra in una crocifissione
tutta segreta, in un fluttuare
di feto nel grembo del tehiru.
Lo
spazio dell’attesa, tra Alfa e Omega, è un deserto: deserto come luogo della
nudità e della devastazione
in cui però è dato udire la Parola (midbar, “deserto”, è legato a davar, “Parola”), l’appello
dello shofar. Lo shofar
dei Giusti di Parisi sembra silente
come il deserto, o forse risponde con
un soffio rauco di anima apparentemente sconfitta al sibilo del canide immondo,
la iena che irride
la santità come i lesim della Bibbia, che spia gli orizzonti in cerca di cadaveri da
divorare. La
iena è la qelippah di Luria, il “guscio” della materia caduta dalle altezze
divine: il suo corpo è ombroso,
un intrico di latebre vergognose, è avvolto su stesso in una rabbia intimamente
impotente. I
corpi degli saddiqim sono semplici, fragili, mitemente ricettivi alla luce.
Il
paesaggio del caos ha una sua eloquenza, concentrata, screpolata e indifesa
come la materia di questa
creazione in fieri, della creazione che è tutt’uno con la redenzione. Nelle
sue piante spinose resta
impigliato il seme della Luce genesiaca, come l’ariete di Abramo. Le sue pietre
sono lacrime celesti
coagulate, condensazione di dolore umano-divino in cui si incide un messaggio
segreto e feriale
insieme: una Torah di intecessioni, una sismografia di passioni e compassioni
che nella loro sperdutezza
vincono silenziosamente la gravità della perdizione, la meccanica della caduta.
Le
tre immagini di Parisi, si diceva, compongono una triade gnostico-ermetica
discreta, la cui nudità
– nudità dei corpi, nudità del deserto – è velo di pudore e riserbo. Il primo
momento del tiqqun, della riparazione-redenzione, è femminile: la donna
sospesa fra cielo e terra è la Shekhinah, la
Presenza di Dio, perché il risveglio deve partire dal basso, dalle acque inferiori della
materia immersa
nel suo sonno e nel suo sogno. Così nell’opera alchemica tutto parte dalla
Donna, dal Mercurio.
La figura femminile dell’incisione di Parisi sembra guardare la iena negli
occhi: sembra voler
estrarre la scintilla divina dal guscio, dalla qelippah,
direttamente attraverso lo sguardo della belva,
che è furente e ipnotizzata insieme.
Nel
secondo momento è l’uomo – lo saddiq
che è riflesso di Yesod, il Fallo divino,
il Fondamento dell’universo
– a richiamare l’anima, rispondendo con le volute arietine dello shofar alla
curva del
corpo femminile, guizzante come una lettera sacra, trasognata e veggente, in un’aria
piuttosto amniotica
e lunare che solare e sabbiosa. L’uomo risveglia la donna, la Shekhinah – l’Androgino comincia
a ricostituirsi: l’arco che li congiunge non è il qeshet,
l’arcobaleno che benedice l’alleanza divina
con Noè, ma un secco arbusto piegato come il dorso di uno schiavo, e che sembra
tuttavia aver
conservato la flessibilità, il ricordo e la traccia dell’umidità celeste. Così,
nell’alchimia, nasce il
Rebis, l’Uomo-Donna, la Coppia filosofica. Qui la iena grida ancora contro la
donna: come nella
maledizione genesiaca, tra la Donna e il Maligno viene posto un legame
perpetuo, perché la salvezza
nasce dal desiderio delle acque femminili, dal ridestarsi dell’anima
intorpidita, folgorata, avviluppata
nel proprio oblio (2).
Il
terzo momento è il più sperduto, ambiguo e decisivo. Il Giusto, nella sua androginia riconquistata,
sembra precipitare sulla sabbia del deserto, dove lo attenderebbero le fauci
della iena;
un’ala angelica pende dal firmamento, sontuosa e pesante, ma non sembra essersi
staccata dalle
spalle dell’uomo cadente. Che non è dunque Lucifero, e nemmeno Icaro: ma è
carico, nella sua
leggerezza, del peso di maledizione proprio di ogni intercessione, di ogni
espiazione vicaria (maledire,
qalal, vuol dire anche ‘rendere leggero’, in ebraico). Difficile
distinguere, in questo corpo
che la gravità ha quasi sopraffatto, il vivo dal morto, lo saddiq della
tradizione dal messia nichilista
di Shabbatai Sevi, che deve e vuole confondersi con il peccato, sposare l’abisso,
compiere l’inaudito.
Tuttavia il Giusto non ha ali perché i
giusti sono superiori agli angeli,
così insegna il Talmud
e ripetono tutte le religioni abramiche: gli angeli non possono discendere
nella materia, non
possono salvare perché non devono salvarsi. La catabasi dell’uomo è la discesa
stessa della Misericordia
divina, che si è contratta per creare il mondo: un abbassamento che trasfigura,
una caduta
che tinge di sangue le pietre, che le trasmuta. Così, nell’opus ermetico,
l’ultima fase è quella del
Sacrificio, della Rubedo che compie ogni fatica.
Mostrandoci
la schiena, in arabo zahr, l’uomo, l’androgino, è totalmente consegnato all’apparenza,
zāhir, che viene dalla stessa radice verbale: ma proprio per
questo forse è attivo come mai,
come il seme quando appare morto, disfatto, putrefatto, come la luce sulla soglia del
Solstizio d’Inverno.
Ce lo suggerisce, con una sorta di brusca e rugosa delicatezza e trafitta
reticenza, il tratto
di Parisi: la levità di questa caduta non è maledizione, il suo ‘quasi’ (quasi
sconfitto, quasi schiantato
a terra) e il suo ‘forse’ (forse redenzione, forse dannazione) sono carezza
messianica, silenzio
imbevuto di una vocalità segreta, come una quintessenza del grido, ancora più
forte e fecondante
del suono dello shofar, dell’annuncio del Grande Giubileo. Di fronte a questa
caduta di misericordia
la iena sembra ripiegarsi su stessa, ritornare al suo stato potenziale,
annullarsi.
Il
Giusto, nel suo fluttuare, nel suo precipitare, è simile ad una lettera della
Scrittura Sacra, incisa sulla
pietra dell’Oreb, bocca che apre la pietra graffiandola, incidendola,
interrogandola: l’uomo, facendosi
mediatore nell’umiliazione e nella gloria, ha voluto, una volta per sempre,
essere questo segno
muto, nascosto, che solo gli altri, assenti sulla scena simbolica, potranno
captare, raccogliere dalle
spine degli arbusti, distillare, mangiare e bere come manna. “Se volete
interrogare, interrogate: ritornate,
venite”, invita la sentinella di Isaia, nell’Oracolo del Silenzio (21, 11-12). A
tali meditazioni ci invita, sulla soglia visionaria tra il sonno e la veglia, l’opera
di Parisi, incidendo,
nell’utero caotico del tehiru, l’alfabeto sacro della compassione redentrice, della giustizia
occulta, leggendo nelle lettere della Rivelazione la conversione della pietra
che si riga, si fende
e lascia affiorare la Parola (3).
Note:
(1)
“Abaye ha detto: ‘Ci sono nel mondo non meno di trentasei giusti (saddiqim)
in ogni generazione
su cui poggia la Shekhinah; poiché sta scritto: Beati tutti coloro che sperano in Lui (lo),
Isaia 30,18. L’ultima parola ha il valore numerico di trentasei (lo=lamed waw)’”
(Sanhedrin 97b).
Sperare in Lui, attendere Lui, è attendere i Trentasei che lo aiutano a
ricongiungersi alla Sua Sposa,
la Shekhinah esule nel mondo insieme al popolo di Israele.
(2)
La tradizione ebraica collega la iena all’androginia: il maschio della iena, zabua‛, una
volta ogni sette anni diventa femmina. Ma si tratta piuttosto dell’ermafroditismo dell’indifferenziato,
del caos, mentre l’androginia umana è realizzata proprio attraverso la differenza
sessuale della coppia, attraverso la mistica dell’amplesso nuziale.
(3)
“La scrittura di Elohim fu
incisa sulle tavole (Es
32, 16). Rabbi Yehoshu‛a ben Lewi ha detto: ‘Non leggere incisa
[harut], ma libertà [herut]’”
(Pirqe Avot 6, 2).
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