Tema del desiderio: kama è la scaturigine del karma e del samsara. Esistono però due prospettive distinte, sebbene
unificabili: dal punto di vista dell’individuo caduto, il desiderio è
l’offuscamento egoico, che moltiplica il sogno dell’esistenza; dal punto di
vista divino o totale, la maya, il
desiderio, è ḥubb, amore,
e raḥma, misericordia: è il desiderio
che l’Immanifesto concepisce di manifestarsi, una caduta glorificante.
La veglia è la circonferenza:
un piano comune di esperienza, ma superficiale (è analoga al piano letterale
della Scrittura sacra). I punti terminali dei raggi-anime vi si confondono: di
fatto però la distanza è massima, perché l’anima incarnata vede tutto
dall’esterno (tranne i propri moti), vive di fede. Immagine antica: più il
singolo raggio si avvicina al centro, allontanandosi dalla superficie – e dunque
isolandosi nella tomba, che è il mondo immaginale, il mondo dei morti – più si
avvicina agli altri raggi. Nel mondo immaginale, nel barzakh, le anime comunicano in modo più diretto, per affinità
(Swedenborg, Fechner).
Il mondo immaginale, malakut, è l’esoterico del mondo
visibile o mulk. Accedendovi, l’anima
accede all’interno delle cose (Fechner), sperimenta quel samadhi con le essenze che si può pregustare nella pratica yogica.
Vede le cose dall’interno e dall’esterno, è nella quarta dimensione. Ma chi ha
pulito i propri sensi con la pratica della giustizia (l’ascesi che rende belli),
si unirà al proprio angelo-volto, al proprio mondo che è il Volto divino rivolto verso di lui; chi li ha
lasciati incrostare dalle passioni, si unirà all’esoterico della propria maschera, un volto contraffatto.
Chesterton insegna che chi pecca non può vedere
le cose così come sono, nella loro trasparenza creaturale.
Kant chiama immaginazione la facoltà
di sintesi, in se stessa cieca. Come la fede: è la griglia di un mondo, è uno
specchio che riflette una luce intellettuale-spirituale. Casey (citato da
Hillman) ripete che l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui lo si
vede: l’affectus, il colore
affettivo. I morti sono gli angeli-dei, gli archetipi desideranti che
continuano ad attraversare ed attirare le anime-menti dei viventi, a costruirne
il mondo con la loro fede, con il loro consensus.
Vi sono vari livelli di
un’unica fede: quella animale elementare, la propriocezione, il conatus che si perpetua; quella che
costruisce le percezioni (Uexküll); il belief che muove
la terza dimensione umana, ovvero la ragione (fede nell’esistenza degli altri,
del mondo etc.); la sraddha-fiducia
che dà continuità alla memoria-attenzione; la fede che dà struttura alla vita
spirituale nel suo insieme, fondamento delle cose sperate, prova delle
invisibili, secondo la parola di san Paolo. Tutto questo è
fede-immaginazione-eros, e ragione-pensiero.
Wittgenstein: il solipsismo
viene a coincidere col realismo quando il soggetto è ridotto a un punto e
rimane la realtà coordinata ad esso. Chesterton dice che l’umiltà è la
riduzione a un punto, a una paradossale condizione adimensionale. Morendo ci si
restringe a un punto ovvero (da un altro punto di vista) a uno spazio vuoto,
accogliente, a una pura fede che lascia essere il mondo com’è. Morendo entriamo
nella fucina immaginale del mondo, contribuiamo a disegnarne i confini, la
forma: tutto questo però resterà insensibile finché non percepiremo nei
pensieri-affetti, nelle memorie, nelle percezioni sensoriali, nei desideri
l’impronta di persone visibili-invisibili, volti affioranti nello specchio
della coscienza, immagini ‘interstiziali’ (Rilke); finché l’interiorità non
passerà dalla nebbia dell’immaginazione passiva, fantasticante, privata, alla
corposità spirituale e personificante, all’immaginazione attiva, mitopoietica,
immediata (“vedo-sento questo, ed è un fatto, un evento, anteriore a ogni
giudizio”) degli antichi. Morendo si è in qualche modo ‘costretti’ (nel senso
del Patto preesistenziale: o è così, o niente, o è il Niente) a diventare bodhisattva, sentinelle sulla soglia dei
mondi, angeli. Si entra nel tempo comune, totale, dell’arte, soprattutto
dell’epica: come quando in un poema dialogano esseri di epoche diverse.
L’immagine dello specchio
suggerisce una causalità circolare, reversibile: io mi muovo verso l’immagine,
l’immagine si muove verso di me. Il mio desiderio plasma il figlio, il
desiderio del figlio si è plasmato il padre e la madre da cui nascere. Io
immagino l’angelo, l’angelo immagina me. Io costruisco il corpo spirituale, il
corpo spirituale si costruisce attraverso me, e dunque costruisce me.
Il corpo sottile come aura.
L’aura come atmosfera psichica dell’archetipo, come affetto manifesto,
colore-tonalità, forma. Morendo ci si riduce ad aure, viene estratta la tintura
dal nostro corpo e dalla nostra coscienza corporea. Siamo semi come il seme-sperma
è il distillato dell’immaginazione essenziale di un uomo.
Domanda vedantica: “Chi eri
otto giorni prima di nascere?” Specularità della domanda sullo stato anteriore
alla nascita e su quello posteriore alla morte. “Chi eri?” Desiderio: il desiderio che sei, il desiderio dei genitori. Ma
cos’è il desiderio, se non inerisce alla Consapevolezza, che non nasce e non
muore? E poi: chi sarai otto giorni dopo la morte? Il desiderio che sono,
l’angelo che ho intravisto nello specchio della mia esistenza terrestre, che è
più me di me stesso e dunque è me e non me. È la lettura gnostica della formula
religiosa: “Lo sa Dio”; il Dio che è il Volto a me rivolto, il mio Volto,
l’angelo che è Sua manifestazione. Dio ci giudica, noi giudichiamo noi stessi:
ancora lo specchio. L’angelo all’inizio appare come Angelo della Morte,
terribile perché chiama alla spoliazione dell’io: la sua spada fiammeggiante è
il verbo della morte, che separa l’accidentale dal sostanziale, l’inessenziale
dall’essenziale. Il corpo terrestre è accidentale, è un aggregato che imita il
corpo spirituale, autentico dell’anima, un ricettacolo su cui cade il riflesso
del mondo immaginale, come il legno e i colori dell’icona.
Dio è un Fuoco divorante: lo
stesso e unico fuoco viene sperimentato come purgazione da alcuni – passaggio,
transito alla pienezza – consumazione d’amore da altri, oppure distruzione
illimitata.
Florenskij: il Giudizio è
antinomico. Ci saranno tormenti eterni, ma al tempo stesso ci sarà la
restaurazione universale nella beatitudine. L’immagine di Dio nell’uomo non può
andare perduta, come il talento della parabola, che viene consegnato a chi ha
già fatto fruttare i suoi, il santo.
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