“Me ne frego”
vuol dire “mi ci masturbo”, “questa cosa è talmente vile che la uso per
masturbarmici”. Ma è davvero una cosa vile, se ci dà piacere? Ed esiste
qualcosa di così vile che non possa darci almeno del piacere solitario, che
urga verso l’orizzonte dove si apre di nuovo il Giardino delle Delizie?
“Vaffanculo”,
“vai a farti fottere”: nell’Età del Ferro la somma ignominia è associata alla paedicatio patita o peggio ancora
accolta e desiderata, eros da ragazzini sottomessi al maestro di grammatica o
d’armi. Il fato sodomizza, deflora da dietro, alle spalle, inatteso, sul lato
dove l’Androgino fu dimidiato da Zeus, il luogo dell’inconscio,
dell’invisibile. Ma allora lasciarsi sodomizzare dal fato è consentire con
Ananke, la Necessità (anankei synchorein),
principio stoico della trasmutazione interiore: perché non c’è umiltà se non si
sperimenta il marchio penetrante, invadente, incancellabile dell’umiliazione.
La bestemmia è
una specialità appenninica. In quei luoghi il Dio abramico, il Maschio Alef, Deus deorum, accostato di schianto
all’animale sacro mediterraneo, il maiale che ha il sangue dell’uomo,
profetico, sacrificale, venereo (choiros
in greco è la scrofa e la fica, nel Medio Evo si diceva sapidamente “la maiala”,
“la troia”, per indicare il cunnus),
il totem sottomesso e assunto dall’anacoreta Antonio – ritorna, ricade per un
lungo istante nell’humus grasso e
ferace, nel fango e nel trogolo, e si libera – paradossale lustrazione – dei
residui psichici del dualismo manicheo, in cui si predicava che il Dio di Luce
è distante dalla Materia come un Re glorioso da un porco. La bestemmia valica
quella distanza: la sua essenza autentica non è la rottura, la mutilazione, ma
l’integrazione, l’intero. Solo la Misericordia può essere “tirata giù” come un
moccolo: Satana cade per la propria gravità, per orgoglio.
Quando sento una
tredicenne dei sobborghi dire “Mi hai rotto le palle” e “Me lo sbatto al
cazzo”, non penso che il modello patriarcale – il modello della caserma – abbia
riportato una vittoria definitiva sul Mutterrecht
e le sue ultime, delicate trincee. Penso piuttosto che il modello della caserma
sia ancora utile, ieri come oggi, e oggi universalmente, a trasformarci in
“signorine” (come i sergenti chiamano le reclute) fragili e turpiloque,
spaventate e pronte e a tutto.
Meriterebbe una seria riflessione anche l'essere scoglionati. Meglio, scoglionate.
RispondiEliminaMaria Rita
Ecco, sì: a differenza degli effati delle mie noterelle, che si odono più facilmente per le strade, questo è ormai diffuso anche nelle migliori case alto-borghesi. I testes (ovvero i testimoni) come metafora corporea della capacità di reggere, di sopportare: davvero strano che una donna, il cui corpo e la cui psiche hanno ben altre riserve di forza (come sa chiunque abbia malamente assistito una gravida, una partoriente o anche solo una donna malata), debba attingere il proprio slang dalla monotonia della caserma e dello spogliatoio (dubito che queste due pregevoli istituzioni abbiano generato tropi originali, negli ultimi venti secoli)
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