The Poor Thing di
Stevenson è la più bella favola pagana che un figlio dell’eone cristiano abbia
mai narrato. Un pescatore, umile, gaio e bruttissimo (sembra un personaggio di
Zhuang-zhi), viene cercato da uno spettro languido e inquietante, il desiderio,
l’idea, la possibilità di un figlio. Quel tremore di fiato, delicato e
inesorabile motore della storia, accompagna il pescatore al tumulo dei suoi
morti, mucchio d’ossa che ronza della brama vegetale di sole e di linfa, la tanha che è sostanza del samsara, silenziosa consegna di un
talismano da una generazione all’altra. Il talismano è una parola e una cosa:
un detto sapienziale, un ferro di cavallo arrugginito. La parola è insipida e
trasformante, come un versetto taoista: “La vita è piana davanti a tutti come le
scanalature di un varo” – la prospettiva della morte, della tomba è questa
levità insostanziale, questa vacuità che evacua le tumide passioni. La cosa è
un koinos Hermes e una sacra reliquia
al contempo: non ha prezzo, perché una cosa vale un’altra – e proprio per
questo è il tesoro inestimabile. La fede che avvince gli uomini al tumulo dei
padri, all’albero, al santuario, al focolare, non è la presa tenace dell’ignoranza
sugli accidenti della storia e del quotidiano: è permeata, impregnata di
consapevolezza, sa in modo trasognato che la tradizione è la figura provvisoria
e dunque preziosissima, da difendere usque
ad sanguinem, che assume il Tao sempre fluente – come ogni esistenza umana,
come ogni sasso e ogni tramonto. La figlia del Conte che sposerà il pescatore e
concepirà il figlio, dando alla luce e alla carne la Povera Cosa, è attratta
dall’indolenza enigmatica di quell’uomo che siede al mercato con un oggetto che
non intende vendere, che sa cosa sta attendendo ma non sa in alcun modo darne
ragione, dirne il perché. La contessa è la coscienza discriminante, che la
semplicità del pescatore deve conquistare per incarnare il destino proprio e
del ghenos: quando ne ascolta i
discorsi si sente stordita e le vien voglia di piangere, perché sente la
cortina dell’apparenza che tremola e si disfa, sente che l’archetipo e il daimon sono ad un passo. Così l’idiota
di orribile aspetto sposa l’aristocratica, e nasce un bravo ragazzo che non sa
nulla, come il padre, come i padri, perché la vita è piana davanti a tutti come
le scanalature di un varo, ma curva e ironica e lunare come un ferro di cavallo
arrugginito.
domenica 10 novembre 2013
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