Ovviamente non si
può trovare risposta alla domanda sulla propria
religione al di fuori della ‘giustezza’ di un destino, della costituzione e
della necessità di un daimon. Qual è la nostra tradizione? Quella
cristiana, non c’è dubbio: e tuttavia grandi profeti minori (non è un ossimoro)
come Benjamin, Illich, Ellul e Quinzio hanno visto benissimo che non stiamo
camminando nel vuoto, non siamo nella posizione di chi assista ad una lunga
decomposizione da una torre d’avorio o di cemento; non siamo in un tempo
post-cristiano ma, come dici tu, in un tempo apocalittico, tempo di
disvelamento del mysterium iniquitatis cui accenna il Nuovo
Testamento. Possiamo chiamarla l’Ombra del kerygma cristiano, possiamo
chiamarla, con Illich, la corruptio optimi: resta il fatto che ciascuno
di noi viene iniziato, sin dall’infanzia, sin dal grembo materno, alla religione
del tecnocapitalismo, l’unica religione esclusivamente rituale della
storia, come rivela Benjamin e come suggerisce Chesterton. È vero che in ogni
epoca l’iniziato doveva disimparare molto per accedere alla liberazione: ma
oggi la prima parte di ogni itinerario iniziatico, il katharmos, la
purificazione, è purificazione da un sistema (come lo chiama Ellul)
capace di una invasività, di una capillarità, di un totalitarismo
impensabile per tutti i nostri antenati. Tale scoperta non ci toglie la
speranza: la speranza fiorisce solo nella disperazione, e Chesterton insegna
che san Giorgio può combattere il drago anche se il drago ha assunto le
dimensioni dell’universo intero; si può essere in lotta con il mondo e in pace
con l’universo, aggiunge. Sicuramente ci toglie ogni sicurezza, ogni aspettativa,
e in un’epoca d’ansia, di panico muto e servile e di richieste di
assicurazione, di tutela, di garanzia, si tratta di una spoliazione tragica e
gioiosa al contempo. Certo, l’iniziazione è comunitaria: ma la comunità non si
identifica con un gruppo visibile; ognuno è comunità, ognuno dice “Padre
nostro”, ognuno è Chiesa. In tempi apocalittici, di dispersione tra le macerie
pericolanti e fumanti, Illich dice che occorre far rifiorire la virtù
dell’amicizia attraverso la conspiratio, la mescolanza dei fiati che
plasma la comunità cristiana delle origini. In tempi apocalittici, occorre
tutto ricordare e tutto dimenticare: celebrare di nuovo gli inizi, e sapere che
è quasi impossibile, nella Roma del 2013. Poi, come escludere che qualcuno
cerchi e trovi il proprio sentiero al Cairo, a Isfahan, a Katmandu, a Lhasa? Ma
non se ne può parlare. È come chiedere: di quale donna mi innamorerò? Se
qualcuno mi facesse una domanda così folle, io potrei solo rispondergli: Non lo
so, posso solo consigliarti, qualunque donna amerai, di amarla come
immagine dell’universo e non come un possesso e un idolo.
Per il resto, in
Occidente ci sono solo frantumi di cammini iniziatici, di antichi
pellegrinaggi: da molti secoli siamo un paesaggio di rovine, siamo abituati a
viverci dentro, a passeggiarci accanto; con questi frammenti i nuovi demiurghi
(si parla di noi, ovviamente) hanno costruito un mondo nuovo. Se non si
nasce in una famiglia tradizionale o non si incontrano precocemente persone
avvinte ad una tradizione – riti, ritiri, pellegrinaggi, tecniche di preghiera,
di meditazione, consigli, racconti soprattutto – non c’è che ricordarsi della
propria infanzia, di quando si è visto, anche solo per un istante, che
le fiabe sono belle perché la vita è una fiaba, una queste cavalleresca,
come insegna Chesterton. In una fiaba l’eroe può trascorrere anche l’intera
vita nell’aridità, pietrificato da un incantesimo maligno, asservito ad un orco
antropofago o a una strega morbidamente crudele: se attende bene, se non lascia
che la brace del suo cuore sia soffocata dalla cenere, la scintilla scocca, il
fuoco centrale ricomincia a guizzare e crepitare. La fiaba non è altro che il
residuo vivente – brano di carne palpitante, anzi esserino di carne spirituale
con una sua integrità misteriosa – di un tempo in cui la sapienza era l’orizzonte
dell’umile vita: consegnare una fiaba ad un bambino è lanciargli una palla su
cui è tracciata la mappa del tesoro; nell’istante prima di rilanciarla al
genitore, può scorgerla in un istante eterno, decidere oscuramente di dedicare
la vita a recuperarla, e quindi a disseppellire l’antica ricchezza. Convertirsi
è ritornare: teshuvah, dicono gli ebrei, epistrofè i greci;
tornare ad un’infanzia non freudiana, forse mai vissuta (“a me le fiabe non le
ha mai raccontate nessuno!”), tornare a ciò che ci tiene sul sentiero senza che
noi ci pensiamo mai – le mute certezze, i presupposti incrollabili, il respiro,
il corpo, il senso dell’animo del Plotino leopardiano, la lingua materna
dell’anima ritrovata da Kostja Levin, la morale delle fiabe custodita nel cuore
da Chesterton. Il resto è avventura, oggi più che mai. Un’avventura che può
finire in casa propria, a Roma, Italia, o in una khanqa sufi dell’Asia
Centrale – o magari in qualche strano purgatorio terrestre, un ospedale, una
guerra, una lunga follia. Not fare well, but fare forward, voyagers.
L’unica cosa che resti di un’esistenza umana, è il voto: voto cavalleresco,
monastico, voto d’amicizia, voto nuziale, poco importa. Il voto è la condizione
dell’avventura, dell’iniziazione: l’iniziazione e l’avventura custodiscono, e
realizzano, il voto. Perché, se essere iniziati è morire, fare un voto è essere
consapevoli che la vita è brevissima, come una bolla, come un battere di
ciglia, dicono i cari antichi: e non è un caso che l’esistenza contemporanea,
con la sua insistenza sulla longevità, sulle mille scelte che possiamo
compiere, sulla libertà di iniziativa etc., sia di fatto un’immensa congiura
per rendere quasi impossibile l’antica arte umana di legarsi volontariamente
affinché la Grazia possa compiere la sua opera liberatrice.
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