I monaci sono morti in vita, i morti sono monaci reclusi nel
midollo della vita, sulla soglia tra i mondi, si sono isolati per meditare,
secondo la prensile parola rilkiana (Storie
del buon Dio). I morti ritornano ad essere musica, che è la voce originaria
della volontà, insegna Schopenhauer, del desiderio divino: diventano ciò che
erano prima di nascere, il ronzio solenne e ammaliante del desiderio, simile a
un bordone liturgico, al fremito dell’arco di Cupido-Kāma, alla salmodia ininterrotta delle api. Per udire
questo suono basta turarsi le orecchie e installarsi tra sonno e veglia: la
morte costringe tutti, morti quieti e morti inquieti, a partecipare alla
polifonia, ma gli inquieti percuotono la corda del desiderio per proiettare la
loro ossessione nell’orecchio sottile dei vivi, che si impregna di morte non
vissuta, di morte perpetuamente moribonda. Così, osserva Simone Weil, sublime
paria torturata dall’emicrania, chi soffre di una violenta cefalea vorrebbe trasferirla
magicamente nel cranio del primo che passa; e chi è mutilato dalla sventura
vorrebbe silenziosamente amputare tutto il mondo, perché ciò che più lo fa
soffrire, ciò che davvero gli impedisce di abbandonarsi all’infernale anestesia
dell’odio raggelato, è la percezione della bellezza e della dignità, il piacere
innocente che canta la sua nota al di sotto della cacofonia delle passioni
terrene.
domenica 10 novembre 2013
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