Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 19 febbraio 2010

Abrahamica



“Sag, daß Jerusalem i s t” (Celan): questo è l’ebraismo. Non: scommetti sull’esistenza di Gerusalemme, ma: dì che Gerusalemme è. Falla essere col tuo dire. “Se voi siete miei testimoni, io sono Dio” (Pesiqta de-Rav Kahana). Questo dire che fa essere ciò che è si carica dell’angoscia della profezia, della specifica angoscia ebraica, librata sul nulla come l’atto creatore di cui diventa specchio efficace.
L’islam non conosce il tragico, la distanza aperta dal logos – forse neanche, in profondo, la lotta con lo Sconosciuto allo Yabboq: ma vive, ad un’intensità di ordine e di follia ignota sia all’ebraismo che al cristianesimo, la dialettica permanente, l’equilibrio proclamato e invisibile, irreperibile, tra il consumante-infamante amore per Lui (Huwa), l’Assente (Ghā’ib), e l’obbedienza nuda al comando rivelato che nega e conferma quell’assenza, quella smisuratezza.

Allah è onnipotente in un senso molto più forte del Dio di Abramo e di Gesù: è il supremo detentore della force, la proiezione illimitata dell’arbitrio – ma è anche il Misericordiosissimo, la Luce, il Bello che ama la bellezza, Colui che ha stabilito la saggia misura, il bilanciamento esatto e oscillante... La sua deinotes, la sua sublimità tenera e sacrificale, assurda e confidente, violentissima anche e soprattutto nella dolcezza, credo si tradisca perfettamente in uno dei versetti coranici più amati: “Noi siamo più vicini a lui – all’uomo – della sua vena giugulare (nahnu aqrabu ilayhi min habli ’l-warīd)”.

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