Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 20 febbraio 2010

Anima e corpo



Ciò che forse più mi scandalizzava da ragazzo era il nesso indiscernibile di anima e corpo: un polo senza l’altro sarebbe stato solo fantastico o bizzarro, non crocifisso. Tremavo fin nel midollo al pensiero che bastasse un cromosoma in più o in meno per dare un segno qualitativamente, radicalmente, inconfondibilmente diverso a un destino; che il transito della morte fosse rilevabile in fondo in modo soltanto convenzionale: che la forma splendente nella sua quieta bellezza fosse esposta, attraverso minime modificazioni della materia che la sosteneva, a sfigurarsi indefinitamente o a cancellarsi brutalmente, assorbita nell’invisibile; vedevo, per riecheggiare imperfettamente lo gnostico Valentino, il corpo appeso/crocifisso all’anima e l’anima appesa/crocifissa al corpo. Stupivo che il volto della carne umana, sollevata la pelle, si facesse ai nostri occhi un caos di smorfie, di contaminazione e bruttezza.
Lessi, a poca distanza l’una dall’altro, la grande intuizione di Simone Weil – la sventura della vita umana è che guardare e mangiare non possono mai essere la stessa cosa – e l’esoterico detto di Lao-tzu – il sapiente si prende cura del ventre e trascura l’occhio –. Fui colpito dal contrasto e dall’accordo tra le due prospettive: l’ebrea-cristiana voleva contemplare senza toccare e mangiare, il cinese lodava la fornace alchemica del ventre e svalutava il faro perennemente inquieto, l’occhio. Il mio scandalo adolescenziale sprofondò nella meditazione della dialettica occhio-ventre. L’occhio può vedere, contemplare le cose, la bellezza, solo se il ventre digiuna, si sacrifica; e il ventre mangia il sacrificio dell’occhio, rende invisibile, intima la bellezza. Ma i due movimenti sono, nella lacerazione, uno: come nell’immagine upanishadica da cui era partita Simone, quella dei due uccelli sul ramo, l’uno che mangia il frutto e l’altro che lo guarda mangiare – simbolo dell’anima-fruitrice e dell’anima-testimone, che sono l’unico sé. La concrocifissione di corpo e anima, di visibile e invisibile, quantità e qualità, mi parve allora mostrare velatamente il mistero del mondo, nulla e manifestazione, limitata pienezza di fragile verità in cui non è possibile, se non mutilandosi-mutilandolo, separare il confine delicato della pelle dalla numinosa e povera molteplicità del corpo profondo e spellato.

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