Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 1 febbraio 2010

Tre dialoghi: Dialogo del Divin Marchese e di un pover'uomo/2



- Prima di averti fra le mani, credevo che il mondo fosse diviso tra il tipo-Justine e il tipo-Juliette. Ma tu, tu mi stupisci, caro.
- Il due inganna, marchese. C’è sempre una terza possibilità.
- Temo che con te non funzionerebbero neanche i rimedi estremi, come il supplizio cinese del lingchi, detto anche ‘taglio in diecimila pezzi’: si può sopravvivere anche per tre-quattro giorni, sai? Oppure, che so, il vecchio sistema del finto salvataggio; o far condurre qui tuo padre e tua madre e scorticarli davanti ai tuoi occhi...
- Trucchi, marchese, nient’altro che trucchi. Tu dimentichi l’anima.
- Vedi, caro, quand’ero ragazzo e trascorrevo pomeriggi interi a fantasticare sulle vite dei Cesari o dei grandi conquistatori e tiranni asiatici, me li figuravo che dicevano alle loro vittime, mentre venivano bizzarramente tormentate al loro cospetto: “Ecco, abbiamo scoperto il segreto della violenza, la parola profonda e quasi profetica che si cela sotto il guscio, tutto sommato banale e ripetitivo, della forza. Noi vi costringiamo ad un’alternativa: o restare legati al nostro ricordo per sempre, o sparire in un oltretempo, in un oltrespazio, in cui non ci sia alcuna traccia d’uomo, d’animale, di radice, di respiro, di vena terrestre. O noi, o il nulla. Se vi comportate secondo l’antico e sperimentato copione dell’eroismo, ricadete nel primo caso: perché sarete d’esempio ai tirannicidi dalla chioma giovanile e ardente, o ai congiurati che s’innamorano perdutamente dell’onesta doppiezza della loro esistenza ideale. Voi non ne uscirete: noi vi proponiamo, o vi imponiamo, un anticipo del giudizio universale – ma con la nostra firma, indiscutibile, indelebile”.
- Questo è giocare a fare la parte di Dio Giudice: un gioco assai poco originale. Il primo che ci ha provato era più vecchio dell’uomo, e si è condannato ad essere, in perpetuo, più vecchio di tutti gli uomini, di tutte le cose.
- Già, il candido monomaniaco, Lucifero. Ma non mi hai lasciato proseguire. Alla fine dell’adolescenza, i vari Caligola e Tamerlano mi erano ormai venuti a noia. Avevano tutti fame di durare: erano fami appena appena incarnate, avevano fame di sanguinosa fama solo per riempire del sangue fresco e magico delle loro prede una lacuna illimitata, una profonda banalità – una profondità di banalità, ti piace così? A me, d’un tratto, le cose apparvero in tutt’altra luce: l’uomo è una macchina, mio buon amico. Una macchina che va a passioni. E le passioni, come ogni combustibile, sono cose, tangibili, forti, insignificanti. Una volta stretta la teoria – la tenevo per il collo e non dava segni di volersi ribellare – tutte le altre cosucce, i castelli regolati dal calcolo delle atrocità, la catena di montaggio delle efferatezze perfettamente oliate, l’ingegneria del dissolvimento in progressioni di infinito zenoniano, tutte le cosucce insomma che mi hanno reso immeritamente famoso, altro non erano che un experimentum crucis, nemmeno imprescindibile direi, di quella legge scoperta, trovata con mite chiarezza nella mia mente giovanile. Ma, come ho detto, tu mi stupisci, mio caro.
- Sono altri giochetti, marchese. Tu continui a giocare. Dimentichi che l’uomo trabocca sempre, esonda sempre. E se anche fosse quella noia che tu pretendi, al di là di quella pozzanghera di noia si stenderebbe pur sempre la terra delle meraviglie, il mondo incoercibile della vita.
- Va bene. Mi hai quasi convinto. Con te non c’è gusto – anche se, questo me lo devi concedere, il tuo caso è solamente l’eccezione che conferma la mia regola. Va’ pure, caro, sei libero.
- Vuoi tentare l’ultima carta, marchese! Credi di avvincermi al tuo sogno mostrandomi il simulacro di una vittoria che, secondo te, dovrebbe precipitarmi nell’inquietudine insuperabile, definitiva. Ma io non voglio vincere contro di te. Non avevo puntato nulla sull’idea di morire, e non punterò nulla sull’idea di sopravviverti. Uscirò dalla tua sala giochi con il mio peso d’uomo, col mio passo d’uomo, e saluterò il tramonto come ogni sera. Nudo sono uscito dal ventre di mia madre, e nudo vi farò ritorno.

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