Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 18 febbraio 2010

Ceci tuera cela



Chi avrebbe mai pensato di scrivere queste cose al computer! Non ho ancora imparato la ritualità del computer, non so quali dei – se di dei si tratta – presiedano a questi luoghi. Conosco un po’ il rito della scrittura con penna e carta: la vecchia angoscia, titanica o creaturale, della pagina bianca in attesa sulla scrivania, la sottilissima comunicazione tra anima e mano nello scaturire e nel dispiegarsi della grafia, il contrappunto tra memoria, visione, pensiero, muscoli e penna nello spazio musicale disegnato dalla scrittura, la stratificazione talmudica delle cancellature, delle varianti o delle annotazioni a margine, gli scarabocchi in cui trovano sfogo le inquietudini di psiche gravida e operosa... e tutta la costellazione immaginale dell’inchiostro, simbolo di densa informità genesiaca, della carta, dono di orienti innamorati della raffinatezza e della fluidità, fragile figlia del legno, esposta al fuoco apocalittico del barbaro illetterato, o del letterato stesso! In Notre-Dame de Paris l’arcidiacono Frollo dice: “Il piccolo uccide il grande. Il libro ucciderà l’edificio”. L’avvento del libro stampato, non il libro-rotolo, non il libro-codice tardoantico e monastico, avrebbe ucciso la cattedrale come libro di pietra, come “canto di pietra”: la lettura ad alta voce del libro-supporto, la ruminatio della Scrittura, la sensuosa e accurata manducazione era parte dell’itinerarium verso la sapienza-assaporamento, e lo spazio leggibile della cattedrale romanica e gotica era il culmine umile e geniale di quel paziente lavoro applicato simultaneamente al libro della rivelazione profetica e al libro della rivelazione naturale, la creatura. Ceronetti aggiunge: anche oggi il piccolo uccide il grande; il microchip ucciderà il libro stampato, ambiguo dominatore della cultura dopo la dissoluzione dell’integrità medievale. Quale Gregorio Magno, Alcuino di York e Ugo da San Vittore mi insegnerà ad accostare i miei sensi alla strana macchina su cui sto scrivendo in questo momento? – Su cui? – Già fraintendo, già mi sbaglio. Se gli strumenti della techne umana sono la proiezione degli organi del corpo umano (Florenskij) – e al tempo stesso tendono ad alienarne a sé la funzione, antico risvolto magico – quale mio ‘organo’ proietta e prolunga questo mostriciattolo che simula intelligenza, se non il nous? E la nootecnica contemporanea, con le sue reti (webs, networks), la sua ermetica e distruttiva fluidità anticarnale, anticorporea, il suo illusionismo ancora quasi del tutto volto all’ipertrofia e al totalitarismo dell’occhio passivo, dell’occhio ricettore puro e quindi nullo – non tenderà per caso a rendere disponibile, e quindi a mortificare, la concretissima noosfera come ambiente vivo e collettivo del pensiero e dell’anima umani? La rete intersoggettiva degli scambi sottili e visibili, fatta idolo in internet, non rischia il puro disumano, cioè il disumano nella sua purezza disincarnata? Il computer, calcolatore promosso a prestigiatore, non renderà l’uomo antiquato, secondo la terribile intuizione di Günther Anders – l’uomo sensuale, l’uomo animale simbolico, l’homo ludens che ancora riusciamo a ricordare? La mia timidezza di fronte a questo specialissimo novum è in buona parte il terrore del custode dei libri di fronte all’avanzare del turco con la torcia: qualche senatore kavafiano dallo sguardo lungo potrebbe dirmi che i barbari sono una risorsa, perché gettano tra le rovine lasciate dal loro passaggio i semi di un futuro per noi incomprensibile. Ma quel poco di profetico che dolora e vede in noi, in me, non dovrebbe salvare i piccoli Penati dall’incendio, anche se i numina magna deum avessero per ipotesi già mostrato il loro volto gravido di promesse ancora indecifrabili?

2 commenti:

  1. Per sacra sublimazione l'uomo si protende verso la sostanza dell'etere, in quell'universo ove realtà e irrealtà hanno un che di intrinsecamente coerente. Ed ecco allora che questo mondo archetipico prende forma, soltanto per averlo ricordato (immaginato?), attraverso migliaglia di alter vultis che propugnamo in grande abbondanza; affezionati all'idea che abbiamo di super-condivisione quando è al di sotto che necessita una sostanza fluida incomprimibile che la sostenga. La fonte di questa è, per me, in quelle giornate nelle quali un soffio di vento corre per la schiena, autunnale, ricordandomi il piacere del solo sentire. Ci vuole tatto, come con ciò che non si conosce, la gentilezza dello spirito è clemente e non fa differenza di dispensa o di forma, purchè dono d'amore incondizionato.
    Con grande stima
    Gianmarco

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