Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 16 febbraio 2010

Primo giorno di apprendistato



Antonio Fiore rifletteva sulla povertà della sua lingua. Alcune cose dure, sostanziose e potenti sfuggivano alla sua presa. Come poteva dire, ad esempio, che la metropolitana di Roma e quella di Pyongyang erano identiche, salvo il fatto che in una si era costretti ad ascoltare Vasco Rossi e nell’altra i discorsi di Kim Jong-il?
Roma non era né buona né cattiva, e nemmeno triste o addolorata. Era stanca e mitemente stregata, e la primavera imminente ne dignificava solo i lineamenti di cui restava inconsapevole: quell’angolo umido, ad esempio, quello stormo di gabbiani coprofaghi, quella prospettiva soffocata ma a suo modo parlante. Antonio la attraversava con attenzione e allegria, ma anche con quel tanto di languidezza tardoinvernale che lo faceva sentire estraneo agli uomini, ma non – non del tutto, almeno – al paesaggio.
Alle otto del mattino la grande via era già la solita Roma immutabile: l’alba l’aveva sfiorata con la sua promessa, l’aveva tinta con delicata rassegnazione, lasciandovi per un paio d’ore circa qualche bisbiglio di pace, qualche ricordo di colori e feste. Era il primo giorno di lavoro per Antonio, e tutto gli diceva qualcosa, sebbene lui non sapesse rispondere a tono.
Cercava di caricarsi di presenti, di immediatezze: questa cosa, questa faccia, questa cara vecchia via Cavour oggi così refrattaria alle sue richieste; ma Roma era Roma, gli uomini erano gli uomini, il cielo il cielo. Della terra non c’era traccia – eppure ne aveva un gran bisogno. Le città sono sempre sospese, qualcuno deve aver tagliato loro le radici.
La piccola strada laterale vibrava di attività, ma anche di sonno. I negozietti erano ancora chiusi, i bar si riempivano e svuotavano con una velocità quasi offensiva per Antonio, che voleva lentezza, solennità, aperture. Certi uffici dietro alle vetrine offrivano miniature insignificanti, sbadigli, metafore di efficienza, bagliori uniformi e compiutamente spettrali: non c’era vita, lì, o almeno si impediva al passante di pensarlo. Bisognava consolarsi con le saracinesche abbassate, coi loro suggerimenti d’anima riposta.
Il suo posto di lavoro era pochi passi più in là. Sapeva che avrebbe dovuto esercitarvi la mansione di amministratore, cioè, supponeva, di factotum; sapeva che il suo capo aveva una voce brusca ma educata, e che si era lasciato convincere dal suo curriculum ma ancor più dalla lettera di presentazione. Antonio era compiaciuto di aver indovinato le parole, di aver dosato fioritura e asciuttezza etc. Era pronto a lavorare bene, duramente e con dignità. Non l’aveva mai fatto in vita sua: una vita breve, d’accordo, ma tutt’altro che facile da raccontare. Non oziosa in un certo senso, anzi, ma in un altro senso fin troppo oziosa, quasi una spaventosa vacanza. Era dunque disposto a rimediare con molti anni di intensa attività dipendente, di giusti salari, di tutelato ma onesto servizio. E servizio non vuol dire servitù – semmai è il suo contrario, o per dir meglio la sua redenzione.
Il capo lo aspettava dietro la porta. Era un ometto tarchiato, ma ad un primo sguardo non sembrava né troppo basso né particolarmente robusto: colpivano i capelli rossi, il colore indeciso della pelle, l’espressione straordinaria del volto. Straordinaria non era forse la parola giusta, ma quella mattina Antonio non era in grado di trovare parole giuste. La faccia del signor Bonetti era ordinaria, eppure costellata di strani dettagli che rifiutavano di risplendere e provocavano lo spettatore ad ansiose considerazioni. Il giovane apprendista le differì, e squadernò un sorriso che sentì cortese e virile. Il signor Bonetti rispose con un sorriso molto simile, che tuttavia strappò Antonio dall’aria familiare di Roma e lo proiettò per un istante nella piatta e solida verità della campagna laziale. Solo allora si accorse che la mano destra dell’omino teneva un libro molto vissuto, e che il forte dito medio era infilato tra le pagine a mo’ di segnalibro. “Sono le prediche di Giovanni Taulero. Lo conosci?”, disse con disumana prontezza. Furono le prime parole dell’incontro. Ad Antonio non parve vero: “Altro che! Taulero è il più grande discepolo di Meister Eckhart, il domenicano medievale che seppe parlare del Divino senza far torto al suo segreto”. Gli piacque l’aforisma. Bonetti storse la bocca, e si limitò ad osservare: “Quel che conta è l’esperienza. La mente porta solo complicazioni e inganni”. E con un buffo gesto di tutto il corpo invitò il suo dipendente ad entrare.

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