Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 9 febbraio 2010

Riflessioni sull'Annunciazione e la Natività



Dicono bene i popoli arcaici: l’unione fisica tra i genitori è causa occasionale della nascita del terzo, del figlio. Il terzo precede sempre la coppia – anche se non nel senso, pressappoco schopenhaueriano, che un uomo e una donna si incontrano ed innamorano affinché la Natura generi un dato individuo. Almeno, non è ben detto. Anche con i platonici – l’anima sceglie il padre e la madre che concorreranno a farla discendere in un corpo e in un’esistenza terrestri – sono d’accordo solo a patto che condividano la mia perplessità. Oggi mi viene da ripetere la sentenza mistico-dialettica di Ibn ‛Arabī: “la causa è causata da ciò di cui è causa”. Qui tutto è reversibile, perché non c’è altro sentiero da seguire che l’ignoranza, lo stupore, il riconoscimento dell’inspiegabilità.
Allora, in che senso il terzo precede sempre la coppia? Non c’è due senza tre: il tre, che si manifesta dopo il due, è già implicito nell’uno, come armonia. Questo è vero anche se non ci sono figli carnali. Ma il figlio carnale, come il figlio psichico, spirituale etc., avviene, viene, si rende presente, ci cerca: e al tempo stesso noi lo chiamiamo, lo invochiamo, gli prepariamo la strada, lo stampo cavo in cui verserà la sua libera, ideale colata. Stampo che, da un’altra prospettiva, sembra pieno: l’intreccio dei condizionamenti che costituiscono l’individuo, in cui l’individuo, tolto l’alone della soggettività, si risolve. Ma è impossibile e ingiusto fare, di chi appare, un oggetto, una collezione di oggetti: anche e soprattutto con la più sottile violenza di considerarlo un’essenza data e incarnata. Perché l’intreccio sia intreccio, perché il samsara sia samsara, occorre ricordare che tutte le relazioni sono reciproche, reversibili, molteplici, che in ogni parte c’è il tutto, che il tutto è connesso al tutto – mistero di giudizio e di misericordia, di samsara come caduta e di communio sanctorum come redenzione, come samsara intimamente redento.
Insomma, tu ci precedi, figlio – non in un tempo immaginario, e nemmeno per via di una priorità logica od ontologica: ci precedi perché è in te e grazie a te che siamo. Non possiamo sfuggire alla nostra destinazione non-duale, più-che-duale: tu ce la manifesti. E, manifestandola a noi, all’universo, sei ciò che sei, sei chi sei.
Nel plasmarsi dell’embrione si addensa e affina tutta l’opera della natura. La debolezza formante del seme, distillato dalle asperità del suo lungo viaggio tenebroso, la ricca e creativa ricettività dell’uovo, in cui il seme sembra negarsi, perdersi, e in un certo senso è così: perché in un certo senso tutto è madre – di nuovo, l’intreccio riempie l’orizzonte, nello spazio non ci sono vuoti. Ma il seme negato, offerto, trova risposta, corrispondenza nella ferita, nell’apertura ancora solo intima dell’uovo: la cui pienezza originaria pare frangersi da un invisibile, ulteriore centro, esplodere a partire da una dimensione superiore, altra. E la duplice negazione, la duplice offerta fa spazio a lineamenti inizialmente caotici, quasi impossibili cioè da isolare, individuare, seguire. Com’è dolcemente e terribilmente tracciata, in questi abissi marini, terrestri, noumenali, l’interrelazione che sempre ci rende perplessi sulla superficie dell’essere, sulla faccia simbolica e rituale dell’essere – quell’interrelazione che porge e confonde l’individualità, che ostende e vela la forma! Così siamo giudicati, così siamo salvati.
Figlio mio, figlio nostro, figlio di Dio, ti penso pensando ad Anassimandro, al suo oracolo di arcaica nettezza: “Le cose da cui gli enti traggono il nascere sono quelle in cui si consuma la loro corruzione, secondo il decreto necessario; essi infatti si rendono giustizia gli uni gli altri per l’ingiustizia, secondo l’ordinamento del tempo”. L’ente nasce alla morte, entra nell’orizzonte mortale: ma se il suo sorgere, il suo apparire, è distacco dalla radice, dalla patria, è per ciò stesso vero che la caduta, l’esodo originario è manifestazione, accesso al gioco della vita, al sogno tramato di simboli. E il suo nascere è solo simbolicamente e ritualmente un inizio, in profondità è un volgersi, un convertirsi – attraverso la corruzione, il pellegrinaggio mortale – al principio da cui si è principialmente staccato. Questa è necessità: filo che lega i mondi, nodo tragico e vitale, collare del giudizio e ampio respiro della misericordia. Questo è il decreto: perché chi nasce ritorna, appare per farsi più intimo, più vero. E il ritorno è giustizia che ci si rende reciprocamente, in quel samsara che è comunione purgatoriale ed embrionalmente paradisiaca, pena del dolore condiviso, della colpa spartita, gioia perplessa della non-dualità, dell’impossibilità della solitudine. Giustizia che rimette in sesto un dissesto originario, profondo, connesso al segreto esultante della manifestazione, quell’uscire che è un grido di spaventosa gioia: giustizia che si esegue e realizza secondo l’ordinamento del tempo, il suo spessore d’anima e di memoria, perché come il decreto di Necessità traccia la linea del diexodos e la curva al contempo nell’epistrofè, così l’ordinamento, la struttura del Tempo è allontanamento dall’aion e suo recupero nei simboli della memoria (Florenskij). (Il diken kai tisin didonai – “rendere giustizia, espiare” – di Anassimandro è l’epistrofè colta nella sua tragicità).

Non devo credere di vedere più di quel che vedo – questa è la suggestione lanciata dai test, dalle ecografie, ma anche, più umanamente e tortuosamente, dalle fantasie, dalle aspettative... – ma far fiorire la visione dal mio non vedere. Come con i morti. L’utero come il mondo, il mondo come l’utero, l’utero come la tomba, la tomba come l’utero, il mondo come la tomba, la tomba come il mondo – non mera fluttuazione, ma migrazione, viaggio. Senti tutte le risonanze della parola trasmigrazione.

Non c’è unione se non attraverso l’immaginazione. Quindi il seme e l’uovo come precipitati dell’immaginazione profonda, della memoria del corpo e del ghenos: il corpo come immaginazione materiata, e il seme e l’uovo come sua distillazione. Ma l’immaginazione lucida, conscia, che parte ha nel concepimento? Forse, nella misura in cui è resa propriamente attiva dalla volontà, dall’intenzione, entra come componente formante, fecondante della fecondazione stessa: ma non bisogna letteralizzare. Nel rito, il corpo prima di tutto: il pensiero deve riappropriarsene, scioglierlo pazientemente e timorosamente negli strati di immaginazione che lo hanno portato alla manifestazione.

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