Il fariseo, perush, il “radicale integrato”, che paga la sua libertà con un lealismo politico pieno di risorse, prova, saggia il rabbi galileo con il massimo dilemma di chi vive nell’impero: bisogna pagare il tributo (kênsos, census) al Cesare? Il kênsos è l’imposta di capitazione, come la jizya islamica: si paga il centro dell’impero per ottenere, in quanto suddito annesso, il diritto di continuare a vivere sul suolo dei propri padri e mantenere, fra le tradizioni avite, quelle che non contraddicano in modo reale ed efficace la centralità trionfalistica dell’impero stesso.
L’impero nasce come complesso militare-mercantile fondato su uno sradicamento sistematico delle culture particolari. La crescente monetizzazione degli scambi, circolanti intorno al centro di gravità della zecca imperiale, ha un correlativo nella taglia-tributo, che al di là del limitato significato politico-militare ne assume uno economico-culturale assai più gravido di implicazioni e sviluppi.
Il kosmos dei Vangeli è sempre specifico; ma è proprio ciò che ogni volta si propone come universale e neutro. La moneta, da simbolo e strumento (aggiogato da sistemi sacerdotali o da culture comunitarie in cui il sacerdotium è diffuso nel vivo tessuto dei “delicati rapporti” reciproci), tende sempre a farsi strumento puro e quindi, in realtà, strumento di omogeneizzazione (il cui centro si crede individuato, incarnato, ma è ovunque e in nessun luogo, come la Divinitas ermetica). Il “mondo” è la pressione dell’economia e della politica sradicate sulla comunità solidale intessuta di simboli e doni: la parola kosmos è perfetta nella sua ambiguità (l’ha coniata, pare, Pitagora!), perché economia e politica sono in qualche modo necessarie (sulla confusione di ananke e agathon, di necessità e bene, vedi S. Weil) per via della crescente istituzionalizzazione del vivere comune. Il logos-mediazione, che specifica l’animale uomo, proietta “da sempre” (il nesso natura/cultura è originario) l’ombra dell’intermediazione alienante, il potere-valore, la distruzione della forma (vedi la “ragione” nel pensiero di Leopardi).
“Dobbiamo pagare il tributo a Cesare?” è domanda affatturante, peirasmòs. Gesù chiede che gli sia mostrato il denarius: la moneta con cui si paga l’imposta di capitazione è un’opera, un atto politico-economico. La domanda-replica sulla proprietà del conio (in greco nomisma, usanza-istituzione), “Di chi è il nome e l’iscrizione?”, è un sobrio e tagliente esorcismo: spezza la pretesa unità dell’impero, la sua uni-versitas. Se la moneta che ho in tasca appartiene al Cesare, posso (e devo) “restituirgliela” (verbo apodidomi): ma posso farlo in modo da “restituire” a Dio ciò che è Suo (e che non viene espresso a parole, perché è il tutto vivente, concreto, il kosmos del kosmos). Se limito l’uso della moneta alla restituzione-via-tributo, limito l’economia neutra, il mercato-impero, al suo grado zero: il mio “lealismo” non sarà ragionevole compromesso (così darei un con-tributo, più o meno sgradito, all’impero) e la mia resistenza, il mio “zelo”, non sarà opposizione frontale, sovversivismo-luddismo (così sarei in realtà perfettamente integrato nella dialettica centro-periferia, potere-marginalità, produzione-rifiuto); vivrò in una comunità particolare, “arcaica” e insieme “messianica”, la cui inclassificabile presenza ridurrà effettivamente la falsa unanimità economico-politica falsamente personificata dal Cesare. Ma come “il Cesare” (ho Kaisar) non è un attore reale (se non nella finzione storica), così “il Dio” (ho Theòs) non è una “personificazione” proiettiva, un Super-uno, ma la sussistenza stessa (origine e meta) dell’agape comunitaria.
L’impero nasce come complesso militare-mercantile fondato su uno sradicamento sistematico delle culture particolari. La crescente monetizzazione degli scambi, circolanti intorno al centro di gravità della zecca imperiale, ha un correlativo nella taglia-tributo, che al di là del limitato significato politico-militare ne assume uno economico-culturale assai più gravido di implicazioni e sviluppi.
Il kosmos dei Vangeli è sempre specifico; ma è proprio ciò che ogni volta si propone come universale e neutro. La moneta, da simbolo e strumento (aggiogato da sistemi sacerdotali o da culture comunitarie in cui il sacerdotium è diffuso nel vivo tessuto dei “delicati rapporti” reciproci), tende sempre a farsi strumento puro e quindi, in realtà, strumento di omogeneizzazione (il cui centro si crede individuato, incarnato, ma è ovunque e in nessun luogo, come la Divinitas ermetica). Il “mondo” è la pressione dell’economia e della politica sradicate sulla comunità solidale intessuta di simboli e doni: la parola kosmos è perfetta nella sua ambiguità (l’ha coniata, pare, Pitagora!), perché economia e politica sono in qualche modo necessarie (sulla confusione di ananke e agathon, di necessità e bene, vedi S. Weil) per via della crescente istituzionalizzazione del vivere comune. Il logos-mediazione, che specifica l’animale uomo, proietta “da sempre” (il nesso natura/cultura è originario) l’ombra dell’intermediazione alienante, il potere-valore, la distruzione della forma (vedi la “ragione” nel pensiero di Leopardi).
“Dobbiamo pagare il tributo a Cesare?” è domanda affatturante, peirasmòs. Gesù chiede che gli sia mostrato il denarius: la moneta con cui si paga l’imposta di capitazione è un’opera, un atto politico-economico. La domanda-replica sulla proprietà del conio (in greco nomisma, usanza-istituzione), “Di chi è il nome e l’iscrizione?”, è un sobrio e tagliente esorcismo: spezza la pretesa unità dell’impero, la sua uni-versitas. Se la moneta che ho in tasca appartiene al Cesare, posso (e devo) “restituirgliela” (verbo apodidomi): ma posso farlo in modo da “restituire” a Dio ciò che è Suo (e che non viene espresso a parole, perché è il tutto vivente, concreto, il kosmos del kosmos). Se limito l’uso della moneta alla restituzione-via-tributo, limito l’economia neutra, il mercato-impero, al suo grado zero: il mio “lealismo” non sarà ragionevole compromesso (così darei un con-tributo, più o meno sgradito, all’impero) e la mia resistenza, il mio “zelo”, non sarà opposizione frontale, sovversivismo-luddismo (così sarei in realtà perfettamente integrato nella dialettica centro-periferia, potere-marginalità, produzione-rifiuto); vivrò in una comunità particolare, “arcaica” e insieme “messianica”, la cui inclassificabile presenza ridurrà effettivamente la falsa unanimità economico-politica falsamente personificata dal Cesare. Ma come “il Cesare” (ho Kaisar) non è un attore reale (se non nella finzione storica), così “il Dio” (ho Theòs) non è una “personificazione” proiettiva, un Super-uno, ma la sussistenza stessa (origine e meta) dell’agape comunitaria.
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