Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 10 febbraio 2010

Silvano dell'Athos



Si ascendero in coelum, tu illic es;
si descendero in infernum, ades.
Ps 139,8

a Silvano, e alla Russia sofferente


Quando il profilo di Satana, goffo
e paziente in quel suo modo indicibile,
adombrò, per gradi, in un’ascesa,
la Ghènnisis e, a lato, la Glykophilùsa,
mi parve di capire: questo il mondo,
questa l’arena, e la bilancia è pavida,
trema, come una bestia. Lui, tua madre,
l’amore di lei e l’amore di Sodoma,
com’è che diceva quel figlio opportuno
della Russia? La mia orazione
restò così, impiccata al komboskìni,
un Giobbe sui rifiuti, che io sono.

Tu mi parlasti – non esattamente
dal turbine, da un cantuccio direi
di quell’oscenità, dove il Nemico
sembrava nel suo amnio, a petto pieno –
e la spada a due tagli mi premeva
al muro del mio orgoglio: Capita questo, Silvano,
ai superbi
.

Non ignora, Silvano, la sua cella
di tutti i giorni, in cui s’è murato
per l’amore inflessibile di Adamo:
un fiato dopo l’altro, faccia a faccia.
Silvano sa, per tua grazia, per le lunghe
sozze fatiche del cuore e del corpo,
le ginocchia del tuo servo, gli occhi,
sanno. E tu parla ancora, dimmi questo,
versami in bocca, da te masticata
prima, per farla discendere, la parola
dell’umiltà, alla cui porta invano
hanno bussato le ginocchia, atteso
arrossandosi gli occhi nel buio,
non di felino, gli occhi, ma di strigide
immondo... Mantieni il tuo spirito
nell’inferno, e
non disperare.

Così tu dici. E sei. Ora. Ricordo
poco.
Sì. Ecco. L’icona venerata
della Katàbasis. Il passo che fende
l’umido della tomba obliquamente
per passeggiare con gli stanchi, fuso,
non mescolato, ai sogni, agli squittii,
alle interrotte reprimende dei morti,
ai ricordi che battono ancora
il loro chiodo, sempre lì. Lo vedo.
E tu lo vedi, come fedelmente
ti attendevamo, come i nostri giri
e rigiri nel fango sono simili
allo sgranarsi che fa il komboskìni?
Neanche una parola ti era prossimo
sull’altro monte, un poco dopo il Tabor,
perché sei la Parola. Neanche una.
E allora, vedi. Adesso la tua grazia
mi ha: non la tengo. Te la rendo.
Ti rendo grazie, fratello dei morti.
Hai voluto discendere per sempre
nell’icona del corpo, nelle spire
dei sogni, inestricabili. Nessuno
può separare ciò che il buio ha unito.


NOTE:
La Ghènnisis è l’icona della Natività: la Glykophilùsa (“Colei che ama, che bacia dolcemente”) è l’icona di Maria che tiene in braccio Gesù reclinando teneramente il capo verso di lui; la Katabasis (o Kathodos) è l’icona della discesa agli inferi di Gesù fra la morte e la resurrezione.

Il komboskìni è una sorta di corona del Rosario in uso sul Monte Athos.

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