Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 10 febbraio 2010

Ad un amico, sulla rivoluzione



C’è un paradosso nel cuore dell’idea di rivoluzione, della forma-rivoluzione: ne ha ben visto il tragico nodo, con il portato di pensiero di un’esperienza squisitamente moderna, Büchner nella sua Morte di Danton. Di per sé la rivoluzione è una violazione del wu-wei, un’espressione di hybris, il tentativo di imporre un’idea limitata, un’idea col suo logos astratto (un’ideo-logia), al tessuto vivo dell’universo e dell’umana vicenda nel tempo. La rivoluzione paradigmatica, che forse è l’unica davvero riuscita della storia, quella cristiana, ci insegna che il principio della rivoluzione è la revolutio, il ruotare intorno a se stessi, la reformatio come mutamento radicale di forma (dall’uomo vecchio all’uomo nuovo). Ricordava opportunamente Zolla che il segreto di ogni rivolgimento culturale-sociale è nel Magnificat, col suo exaltavit humiles: non sono le armi, la rivolta, l’azione-intervento a cambiare il mondo, ma i poveri, gli emarginati di una specifica società, di uno specifico assetto di potere, che (e se) con la loro stessa vita testimoniano il novum, la differenza fondatrice di un nuovo ciclo storico, di una nuova cultura. Cultura è cultus, la paziente coltivazione in accordo col tempo: e Dio esalta gli humiles, quelli che stanno a terra, rasoterra, quelli che partono dall’humus, dalla terra fertile, che sono come terra. Eppure, non possiamo fermarci qui – ecco il colpo di gong del tragico, che rende impossibile ogni ottimismo, come del resto ogni pessimismo: a un certo punto i poveri, gli umili devono prendere il potere, il potere deve farsi cristiano, bisogna non solo aspettare un Costantino coi suoi sogni e la sua spregiudicatezza, ma anche che la rete amministrativa delle diocesi, protetta dalle armi, dalla politica, eserciti finalmente la plenitudo potestatis cui si è preparata per secoli; e tutto si fa nascondimento ancora più fitto, apocalittico, il Cristo trionfa, il Cristo si rinasconde nei tuguri, nei sotterranei, nell’humus.
Insomma, non c’è rivoluzione che non sia anzitutto e soprattutto una profonda riforma culturale, che parte dal basso, dal piccolo, da piccoli gruppi, da piccole testimonianze: ma la riforma, quando inizia a crescere (sul piano materiale-sociale), a intridere la pasta del popolo, a plasmare un’epoca, inizia a corrompersi, a decadere (sul piano spirituale-ideale), deve venire a patti, rendere i propri esperimenti istituzionali adatti ai grandi numeri, o almeno limitarsi a una data comunità, a un popolo di individui che si conoscono, diviso in stirpi, con memorie condivise, autonomie concrete, miti non troppo remoti. Una parabola che conoscono tutti, ma che tutti dimenticano: primo perché la rivoluzione, col suo afflato di eresia cristiana, col suo fuoco apocalittico, cancella il radicamento riverente, la circospezione saturnina, il sale della saggezza popolare; ma anche e soprattutto perché questi aspetti di croce, di tragica necessità, sono tutto sommato secondari di fronte alle novità autentiche (e raramente presenti alla coscienza quando il processo è in fieri) che la rivoluzione cerca di tradurre in istituzioni, in politica. (Péguy diceva: “Tutto comincia in mistica e tutto finisce in politica”. È una frase che va letta nel modo giusto, ma è così).
Anche oggi è così. Lascio stare, per il momento, ogni riflessione sul marxismo, una filosofia rivoluzionaria europea (sostanzialmente sorella gemella-antagonista del liberalismo) che aveva forse grandi possibilità di trascendersi in un esercizio di critica permanente, e invece per impazienza (il grande morbo rivoluzionario) la si è vista incarnata in grandiose apocalissi asiatiche che preludevano a dispotismi vecchio stile retti da fantastiche elefantiasi di burocrazia totalitaria – oppure in rivolte sudamericane mezze jacqueries e mezze lotte di decolonizzazione che preludevano a satrapie ancor più vecchio stile... Credo che oggi si debba prescindere per lo più dai dogmi marxisti – e rileggersi al contempo le pagine migliori di Karl Marx – e che ci si possa accordare su un pugno di eretici per ripensare il mondo dal basso, dall’humus: io propongo la Scuola di Francoforte, Benjamin, Schumacher, Polanyi, Ivan Illich, Castoriadis – e Pasolini, ovviamente... Ce ne sono altri – non moltissimi: li riconosci dalla solida carità che hanno per l’uomo insensibilmente torturato dalle idolatrie del Brave New World neocapitalistico, l’idolatria del consumo, l’idolatria del lavoro; una solida carità che brucia quasi tutte le loro inevitabili, a volte, astrattezze di professori, di ideologi, di ribelli, di eretici, appunto.

Un saluto.

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