Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 5 febbraio 2010

Alcune osservazioni sulla questione: “Perché non vediamo gli angeli?”



Nell’islam medievale le regolarità nei fenomeni naturali venivano chiamate “abitudini”, ‛adāt: non erano considerate espressione di una legge oggettiva e impersonale, ma di una volontà personale, quella divina, e solo la loro assidua ripetizione induce l’uomo ordinario a vederle come qualcosa di fisso, di stabile, di regolare appunto. Da un lato, nulla osta a che Dio, autore della natura, intervenga nel mondo naturale con azioni miracolose, ed anzi è questo il principio delle rivelazioni profetiche: dall’altro, è il mondo nel suo insieme ad essere in un certo senso un miracolo, in quanto totalità di atti divini e non di fatti determinati da una qualche causalità non libera.
Un filosofo che non credeva in alcun Dio personale, ma che osservava un rigore cristallino nella considerazione dei fenomeni, David Hume, molti secoli dopo sostenne che non c’è regolarità in natura, se non quella ad essa attribuita dal belief umano, dall’abitudine che induce nell’uomo la mera ripetizione.
La rivoluzione scientifica europea, che ha introdotto nella mentalità occidentale, lentamente ma inesorabilmente, il condizionamento meccanicistico (l’abitudine a credere nella causalità ‘orizzontale’ e meccanica come unica descrizione e anzi spiegazione dei fenomeni), ha avuto tra gli altri un effetto culturale di cui solo pochi oggi prendono faticosamente coscienza: l’uomo occidentale crede che la conoscenza sia qualcosa di dato, di immediato, di passivo, qualcosa di sottratto alla coltivazione morale, alla volontà. Cuore e intelletto si sono separati: il mondo fenomenico è totalmente conoscibile e conosciuto, ma privo in se stesso di un senso per l’anima, di uno spessore spirituale; la mente, il soggetto ridotto a res cogitans, sovrappone i suoi contenuti all’oggetto ridotto a res extensa, ma con il crescente sospetto (fattosi profonda inquietudine col nichilismo) della propria illusorietà.
In questa condizione, l’esperienza dell’angelo – l’esperienza dell’anima – viene repressa e soppressa: essendo la percezione riconosciuta come qualcosa di dato, di solamente-oggettivo, di solamente-esterno, e non come evento soggettivo-oggettivo, incontro, contatto, i sensi scorrono su di essa come lungo un muro, invece di coglierla come azione, come qualcosa che viene loro incontro e a cui partecipano, impegnando l’intera struttura conoscitiva e volitiva dell’essere umano. Quel fremito che ci afferra quando il raggio di luce ci sfiora attraverso le foglie dell’albero, viene scartato come evento conoscitivo e depositato nella memoria come immagine la cui aura emozionale viene tollerata, riconosciuta legittima, solo nell’abbandono evasivo e innocuo della fantasticheria o nell’elaborazione artistica, che è l’unico surrogato moderno dell’esperienza immaginale, dell’avvento dell’angelo. Ma come nell’interiorità-soggettività tutto ciò che è scartato, minimizzato, negato diventa radice oscura, presenza inquietante, e scoprirlo è principio di guarigione, di integrazione; così nel mondo esterno (che in tal modo riprende il dialogo interrotto col ‘mondo interno’) la possibilità scartata – ‘questo fenomeno come immagine, come intersezione tra mondi, tra dimensioni diverse’ – può ritornare ad assumere dignità di conoscenza. Se noi ci rendiamo disponibili ad incontrare l’angelo, l’angelo può tornare ad incontrarci: ma ciò implica un cambiamento della nostra visione del mondo, una revisione gnoseologica, in un continuo scambio dove l’evento onirico e la fantasia ci sollecitano a rimeditare il mondo nel suo insieme e questa meditazione ci porta ad incontri sempre più chiari e intensi con l’angelo del sogno e della fantasia, con l’angelo che ci attende ‘là fuori’ come ‘qui dentro’, sotto l’albero, davanti alla fontana, ad occhi chiusi e ad occhi aperti.

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