Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 8 febbraio 2010

Riflessioni sparse su sensi e cultura/1



Ricorda sempre questo: all’inizio non ci sono mai principi razionali di diritto e di etica, norme risolvibili in chiara conoscenza, ma sempre qualcosa di simile alle regole di un gioco, gravide della loro spiegazione razionale, del loro commento, ma che sempre lo eccedono nella pienezza, nella totalità del simbolo, del rito. Le ‘leggi’ di una comunità come tessuto simbolico, mediazione tra il mito di uno stato ottimo, di un telos umano-divino, e la condizione presente sentita come irta di ostacoli, deviazioni, dimenticanze: in trasparenza è visibile la meta, ma sempre come totalità individuata, universale-particolare, integrità in cui vi è semplificazione della vita ‘decaduta’ ma non nell’universale in quanto tale, bensì arricchito dallo spessore vivente di quella data comunità come manifestazione irripetibile del divino, come intersezione dinamica, appunto. Difficile, per culture che abbiano valicato il punto della loro crisi, non prestare all’idea di fede e tradizione l’aura dell’ignoranza, l’alone dell’oscurità: lo scoglio del relativismo sofistico è letteralmente qualcosa di decisivo, appartiene al momento tragico di una storia, di una collettività. Per questo solo uno sguardo autenticamente tragico può superarlo e assumerlo, senza lasciarsi corrompere dalla tentazione intellettualistica – “ogni comunità ha i suoi costumi, anche se il fine cui mirano è unico”, oppure, già sulla via del nichilismo, “la molteplicità dei costumi non si fonda sull’unità e sull’oggettività, ma è l’espressione di volontà diverse e irriducibili” –: uno sguardo in cui coesistano lo scarto fenomenologico, l’accettazione del proprio destino individuale-comune, la tensione della molteplicità verso un significato mai afferrabile e disponibile, insomma uno sguardo ad un tempo estremamente purificato e lacerato, meridiano e notturno, ermetico e popolare.

Per riprendere Nietzsche, credo che la sua intuizione sul “giudizio” come spessore dell’apparentemente immediata sensazione sia sempre feconda, purché la si intenda in chiave psicologica (di psicologia culturale, cioè lo studio fenomenologico dell’anima collettiva) e non astratta-intellettualistica. Ogni sensazione è il modo in cui una cultura si incarna, si manifesta in un corpo animato: è il manifestarsi dell’anima all’anima nella specificità (quindi nella forma) di una data cultura, cioè di una data configurazione dell’immaginazione creatrice; è insomma l’epifania contratta, limitata, parziale di un’idea, e il lavoro dell’anima (psicologico e razionale) consiste nell’ampliare la prospettiva, sciogliere le fissazioni, purificare le passioni egoiche. Ogni epoca vede, ode, annusa in modo specifico: la sensazione non registra un mondo di oggetti immutabili, è una finestra dell’anima sull’anima. I Greci non solo vedevano i colori in modo diverso rispetto a noi, ma vedevano in un certo senso colori diversi. Lo spazio così com’è percepito non solo nelle culture arcaiche ma anche in quelle alfabetizzate e plasmate dal pensiero razionale e scientifico, non è lo spazio astratto della geometria euclidea, né tantomeno il piano cartesiano con le sue coordinate: è uno spazio ancor più concreto di quello riemanniano-einsteiniano, curvato dalle molteplici sensazioni, dalle qualità. La mente non colonizzata dall’alfabeto e dalla scrittura non conosce ‘oggetti’ sovrapponibili a quelli conosciuti dalla mente abituata al linguaggio scritto e alla sua logica. Negli ultimi secoli la cultura occidentale ha misteriosamente smarrito l’esperienza e l’espressione di incalcolabili sensazioni. Ogni transito storico in senso forte – la storia come storia dell’anima – ha visto cambiamenti che hanno interessato l’intero tessuto simbolico dell’esistenza umana nel cosmo: cambiamenti sociali, politici, linguistici, filosofici, tecnici – ma il cambiamento che tutti li compendia è quello dell’immagine di sé e del mondo che l’uomo, come singolo e come membro di una collettività, sperimenta nelle proprie sensazioni, nel proprio rapporto sensuale e sensato con il tutto. Non sto proponendo una lettura scettica, nominalistica delle culture, come se queste molteplici e radicali differenze specifiche non avessero un fondamento comune, in virtù del quale le sensazioni di un certo tipo sono comunque affini, imparentate: se così non fosse, non si potrebbe neanche parlare di differenze specifiche. Ma ciò che è comune – ad esempio fra il nostro modo di considerare gli spostamenti e quello, che so, di un uomo del Mediterraneo nel XII sec. a. C. – è da un lato un artificio logico che mi consente di dire e pensare entrambe le esperienze, dall’altro un’unità reale che non posso afferrare se non contemplativamente (l’idea platonica, appunto!): ciò che posso e devo pensare e meditare con tutta l’anima è proprio la differenza, la diaforà, quella specificità in cui abita l’anima, lo specifico modo di muoversi di un uomo della mia epoca (l’epoca delle automobili, degli aereoplani, della televisione) e di un uomo del XII sec. a. C. (epoca di viaggi a piedi, a dorso di mulo, col cielo stellato come riferimento). E così via. Per questo lo studio della storia (in questa luce) è così importante per l’anima.

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