Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 3 febbraio 2010

Dialoghetto (appena appena postlapsario) tra Adamo ed Eva



- Adamo, che cosa dovremmo fare, adesso?
- Non lo so, Eva. Ma il tuo corpo mi dice qualcosa, delle parole, che non capisco.
- Lascia stare il mio, il tuo corpo. Non vedi dove siamo caduti?
- E cosa ci resta, nel luogo della nostra caduta, se non la tristezza dei nostri corpi?
- I nostri corpi non sono né tristi né lieti: sono miserabili, ecco tutto.
- Hai ragione, perdonami. Intendevo dire questo.
- Allora, cosa facciamo?
- Come? Già, già... Servirò la terra, faremo il pane, avremo dei figli, e tu li partorirai imprecando contro di me. Ma il tuo corpo, Eva, che cosa mi sta dicendo, il tuo corpo?
- Non lo so, Adamo. Forse è quella cosa, la passione, di cui parlava lui? Quella che tu getterai su di me, che io getterò su di te, che tu ti sforzerai di dominare, che io placherò con le cure del giorno e della notte?
- Forse no, Eva. Forse è qualcos’altro. È la parola del tuo corpo triste, che qualcuno deve raccogliere, portare alla luce imperfetta del luogo in cui siamo caduti.
- Vuoi dire che saremo per sempre due, Adamo? Ora capisco perché parli di tristezza.
- Saremo due, saremo tre, saremo milioni, ma non è questo che importa. La nostra ferita parla: riesci a udire la mia?
- Ancora no, ma inizio a vedere qualcosa... Penombre, sinuosità, nascondimenti...
- Io odo, tu vedi. Siamo due e non lo siamo. La nostra colpa e la nostra felicità sono due oppure no?
- Hai ragione, Adamo. La condanna è poter essere due: la pace è poter intravedere, di nuovo, i lineamenti del giardino nell’impossibilità di essere soli.
- Stavolta sì che sei osso delle mie ossa e carne della mia carne! Vieni, sposa, i tramonti ci aspettano, la lampada della sofferenza abbraccerà il nostro errare.

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