Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 5 febbraio 2010

Gesù e il tributo (Mt 22, 15-21), ripensando a Zolla e Quinzio



Il fariseo, perush, il “radicale integrato”, che paga la sua libertà con un lealismo politico pieno di risorse, prova, saggia il rabbi galileo con il massimo dilemma di chi vive nell’impero: bisogna pagare il tributo (kênsos, census) al Cesare? Il kênsos è l’imposta di capitazione, come la jizya islamica: si paga il centro dell’impero per ottenere, in quanto suddito annesso, il diritto di continuare a vivere sul suolo dei propri padri e mantenere, fra le tradizioni avite, quelle che non contraddicano in modo reale ed efficace la centralità trionfalistica dell’impero stesso.
L’impero nasce come complesso militare-mercantile fondato su uno sradicamento sistematico delle culture particolari. La crescente monetizzazione degli scambi, circolanti intorno al centro di gravità della zecca imperiale, ha un correlativo nella taglia-tributo, che al di là del limitato significato politico-militare ne assume uno economico-culturale assai più gravido di implicazioni e sviluppi.
Il kosmos dei Vangeli è sempre specifico; ma è proprio ciò che ogni volta si propone come universale e neutro. La moneta, da simbolo e strumento (aggiogato da sistemi sacerdotali o da culture comunitarie in cui il sacerdotium è diffuso nel vivo tessuto dei “delicati rapporti” reciproci), tende sempre a farsi strumento puro e quindi, in realtà, strumento di omogeneizzazione (il cui centro si crede individuato, incarnato, ma è ovunque e in nessun luogo, come la Divinitas ermetica). Il “mondo” è la pressione dell’economia e della politica sradicate sulla comunità solidale intessuta di simboli e doni: la parola kosmos è perfetta nella sua ambiguità (l’ha coniata, pare, Pitagora!), perché economia e politica sono in qualche modo necessarie (sulla confusione di ananke e agathon, di necessità e bene, vedi S. Weil) per via della crescente istituzionalizzazione del vivere comune. Il logos-mediazione, che specifica l’animale uomo, proietta “da sempre” (il nesso natura/cultura è originario) l’ombra dell’intermediazione alienante, il potere-valore, la distruzione della forma (vedi la “ragione” nel pensiero di Leopardi).
“Dobbiamo pagare il tributo a Cesare?” è domanda affatturante, peirasmòs. Gesù chiede che gli sia mostrato il denarius: la moneta con cui si paga l’imposta di capitazione è un’opera, un atto politico-economico. La domanda-replica sulla proprietà del conio (in greco nomisma, usanza-istituzione), “Di chi è il nome e l’iscrizione?”, è un sobrio e tagliente esorcismo: spezza la pretesa unità dell’impero, la sua uni-versitas. Se la moneta che ho in tasca appartiene al Cesare, posso (e devo) “restituirgliela” (verbo apodidomi): ma posso farlo in modo da “restituire” a Dio ciò che è Suo (e che non viene espresso a parole, perché è il tutto vivente, concreto, il kosmos del kosmos). Se limito l’uso della moneta alla restituzione-via-tributo, limito l’economia neutra, il mercato-impero, al suo grado zero: il mio “lealismo” non sarà ragionevole compromesso (così darei un con-tributo, più o meno sgradito, all’impero) e la mia resistenza, il mio “zelo”, non sarà opposizione frontale, sovversivismo-luddismo (così sarei in realtà perfettamente integrato nella dialettica centro-periferia, potere-marginalità, produzione-rifiuto); vivrò in una comunità particolare, “arcaica” e insieme “messianica”, la cui inclassificabile presenza ridurrà effettivamente la falsa unanimità economico-politica falsamente personificata dal Cesare. Ma come “il Cesare” (ho Kaisar) non è un attore reale (se non nella finzione storica), così “il Dio” (ho Theòs) non è una “personificazione” proiettiva, un Super-uno, ma la sussistenza stessa (origine e meta) dell’agape comunitaria.

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