Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 27 febbraio 2010

Intrecci del Logos: due passi nel labirinto



Note sui paradossi e sul rapporto limite-illimitato

I.
Paradosso del Sorite: quanti chicchi ci vogliono per fare un mucchio? Esiste un numero al di sotto del quale la forma ‘mucchio’ non appare? Se sì, la differenza tra mucchio e non-mucchio è di un’unità? Oppure di quante?
Il continuo scontro/armonia di intuizione e astrazione costituisce la totalità della nostra vita percettiva ordinaria. La forma-mucchio è intuitivamente indistinta, un apeiron, ma un concreto mucchio è comunque numerabile, è un insieme casuale, una totalità confusa, un uno-molti sui generis. Siamo soliti contare gli elementi che compongono piccoli insiemi, ma oltre una soglia difficilmente determinabile solo certi pazienti neurologici – del tipo di quelli studiati da O. Sacks – riuscirebbero a “vedere” il numero di un soros di oggetti senza contarli in successione. Il paradosso stoico si avvale evidentemente della nozione confusa, in un certo senso apeiron, di “mucchio”: si potrebbe anzi dire che chiamiamo “mucchio” un insieme intuitivamente grande e che non dobbiamo o vogliamo sottomettere all’arithmos; eppure l’osservazione non suona risolutiva. In fondo è quasi come chiedersi: qual è la statura minima di un uomo normale, quella sotto la quale si dev’essere considerati nani? Qui però, oltre alle limitate-limitanti condizioni e consuetudini di una data collettività, la forma-nano e la forma-uomo normale trovano un discrimine nelle implicazioni morfologiche generali (il nano non è solo un uomo in miniatura, è caratterizzato da acondroplasia o dal sottosviluppo del nanismo ipofisario etc.). La forma-mucchio è ben scelta proprio per la sua refrattarietà alla forma in senso forte: mucchio è un insieme indistintamente grande che percepiamo come informe; non c’è una ‘mucchità’ suggerita dalla natura, come invece in tutti i casi in cui la materia si accompagna ad una forma che le imprime un’organizzazione, una vita unitaria.

Qualche nota per dare uno sfondo meno logico e più ‘orientale’ al paradosso di Epimenide.
Epimenide di Cnosso era uno sciamano: la sua impresa più celebrata fu un lunghissimo sonno catalettico in una caverna, come quello dei sette dormienti di Efeso. A proposito di Efeso, escludo anzitutto che l’effato “Tutti i cretesi sono menzogneri” sia un’uscita eraclitea, da profeta sdegnato. ‘Mentire’ in greco è pseudesthai: ma al di là dell’accezione morale e logica, pseudos indica anche (nei Pitagorici e in Platone, ad esempio) la “finzione” quasi in senso borgesiano, qualcosa che non è né vero né non-vero ed è al contempo sia l’uno che l’altro, e può avere, se ‘abilmente’ orientata, una decisiva funzione psicagogica[1] (condurre l’anima, attraverso il pathos delle emozioni, ad un primo gusto della Verità). Insomma, un po’ come la ‘verità convenzionale’ nella Madhyamika: si ‘salvano le apparenze’, si dà per buono che lì esista un cane, qui un albero etc., per la loro ‘efficacia’, come quando si dice ad un bambino privo di madre la parola ‘madre’ (così in un testo della scuola). Ora, se le cose stanno così, che Epimenide abbia detto “Tutti i cretesi mentono” o “Io mento”, si tratta di due versioni dello stesso “paradosso”: io mento, ma nella misura in cui mento (nel senso pitagorico-platonico-madhyamika) dico anche la verità, eppure non la dico. Ricorda vagamente il paradosso stoico del Velato, che o è un sofisma piccolo piccolo, o un’allusione a questa più sottile nozione di verità: ‘Conosci questa persona velata?’ ‘No’ ‘Le ho tolto il velo: la conosci?’ ‘Sì’ ‘Dunque conosci e non conosci la stessa persona’. In fondo, tutto è già contenuto nella parola rivelare: tolgo il velo – velo di nuovo.
Ma torniamo all’Epimenide come paradosso logico, come paradosso della verità logica.[2] Merita di essere esaminato insieme all’altro capolavoro della Stoa, quello del Coccodrillo. Ovviamente un paradosso logico non è soltanto un paradosso logico, ma anche una kafkiana porta della Legge, un accesso negato e offerto ad un livello superiore di esistenza e conoscenza.
Epimenide è stato uno degli eroi della sophia arcaica in Grecia: in un certo senso, il paradosso a lui attribuito ci ri-vela il grado zero del logos, il suo stadio germinale, da cui si ramificano tutti i labirinti possibili-necessari. ‘Io dico di non dire il vero’ – ‘la proposizione A afferma che la proposizione A è non-vera’ – A=non-A. La verità, una volta detta, non c’è più, secondo la saggezza popolare: cioè si dice (!) che ogni dire la verità (ogni suo logos) è anche non-verità nella misura in cui pretende di porsi come verità – ed è verità nella misura in cui non si pone come tale, in cui si pone come non-verità. Non solo, come sostiene delicatamente-vertiginosamente Borges, l’infinito è un concetto che corrompe tutti gli altri, ma il concetto di Assoluto fa esplodere ogni discorso, perché già un ‘concetto di Assoluto’ è in sé aporetico. Si può dire (Florenskij suggerisce qualcosa di simile) che A è A solo in quanto è – consapevolmente – non-A, e cioè che Epimenide dice il vero solo nella misura in cui mente sapendo di mentire: un po’ come nel koan in cui A chiede a B: “Come ti chiami?” e B “Mi chiamo A”; A “Ma A sono io!”; B “Il mio nome è B” ed A scoppia in una risata/satori.
Nel caso del Coccodrillo, la bestiaccia, dopo aver rapito un bimbo, se lo porta nella tana, un canneto su un isolotto al centro di un lago. La madre l’ha inseguito trafelata, è sulla sponda, vicina al suo piccolo e insieme lontanissima. Il mostro è un impensato avatar di Apollo, a quanto pare, perché invece di sbranare la tenera preda in animalesca indifferenza per le grida della donna, le propone un enigma, con quel suo sorriso preistorico e raggelante: “Se indovinerai che cosa farò, ti restituirò il bimbo, altrimenti me lo mangerò qui davanti a te”. La donna, nonostante l’orrore, attinge dentro di sé ad un archetipo che non è nemmeno apollineo, l’archetipo di una dea maga che pietrifica il cosmo intero: “Tu non mi restituirai il bimbo!”. A questo punto, il rettile è en aporia: in una strada senza uscita; ma anche la madre lo è, perché ha come congelato la scena in un perpetuo anello insolubile. Se il coccodrillo non restuisce il bimbo, la madre ha detto il vero, quindi deve restituirglielo; ma se glielo restituisce, la madre ha detto il falso, quindi non deve restituirglielo.
Molto graziosa la versione da turista americano, escogitata dal matematico Rudy Rucker: in visita alla Bocca della Verità di S. Maria in Cosmedin, ha infilato la mano nella famigerata fessura e ha detto: “Io non ritirerò la mano”.
Un dio, o un mostruoso semidio, o una macchina che pretenda di verificare la verità di quanto dico – la mia veridicità – viene messo in scacco insieme a me (siamo messi in scacco in modo interdipendente, perché la vittima dell’aporia è, impersonalmente, la verità stessa di quello che stiamo facendo qui ed ora) se io arrischio me stesso, in una specie di aikido logico molto apollineo, enunciando ciò che mi nega, il contrario di ciò che ci si aspetta dovrebbe salvarmi. In realtà, così facendo, io (madre o turista) vinco sottilmente la sfida, perché mostro al guardiano della verità che non sa sciogliere questa crisi della verità: l’unica soluzione narrativa sarebbe o un’autodistruzione per collasso del coccodrillo, della Bocca e della macchina della verità, oppure, come in un ideale racconto zen su un dialogo tra un saggio e un demone, ricevuta la stoccata l’altro potrebbe salire ad un livello superiore di comprensione insieme a me, suo nemico.

[1] Un esempio tipico sono i cosiddetti “miti” nei dialoghi platonici.
[2] La Verità spirituale accetta ed anzi benedice gli Epimenidi. Una storia chassidica parla di un uomo che va dal Rebbe e gli confessa piangendo: “Io mento, mento in continuazione”; poi si copre il volto e dice: “Ah, neanche questa è la verità!”, e cade a terra. Il Rebbe esclama: “Come cerca la verità quest’uomo!”. Lo fa rialzare con dolcezza, e gli cita un versetto biblico, dai Salmi: “La Verità sorgerà dalla terra” (terra, humus, humilitas).


II.
Casi di illimitato: l’utile in economia e il gusto nell’estetica (J. Ruskin). L’utile è in se stesso incircoscrivibile, inconoscibile, implica la propria autoconfutazione: più si cerca l’utile in quanto tale, meno lo si trova (Leopardi: questa età è stolta, folle, perché chiedendo l’utile non vede diventare la vita sempre più inutile). Il peras che dà ordine e misura a questo apeiron è la giustizia, come nel saggio antiutilitarista del Manzoni. Non dissimile l’idea socialista di Polanyi: l’economia reale è sempre embedded (inserita, incorporata, radicata) in una data società. L’idea di ‘libero mercato’ è apeiron, e conduce a paradossi come: cresce la ricchezza del Paese, nonostante i lavoratori vivano sempre peggio. Ma poiché l’illimitato senza limite è naturalmente impossibile, il peras che informa un’economia utilitarista è o lo specifico interesse di una classe (diagnosi binaria, ‘marxiana’), ma ciò si autoconfuta a sua volta, perché il vero utile separato è una chimera, come si è visto; oppure, più profeticamente, è quello Streben distruttivo-autodistruttivo che regge in assurda esistenza l’apeiron eletto a legge universale (Kafka: De Sade è il patrono della nostra epoca). I paradossi del gusto rimandano a quelli pitagorici-platonici del piacere (Filebo, come il paradosso della potenza viene enunciato nel Gorgia), inseparabile dal bene ma ad esso ordinato. Chi può fare un calcolo del piacere, se non in ordine ad un’idea di bene a cui il piacere stesso può quindi essere sacrificato? Al tempo stesso, però, un bene privo di piacere è una sorta di dimostrazione per assurdo, una crux, che rimanda comunque alla piena attualità di un bene gustato con sensi perfetti (come la ‘volontà di Dio’ è in rapporto dialettico con la ‘volontà propria’: un uomo avvinto ai pathe non ‘sente’ la volontà divina se non nel cozzo con la propria o nel rapporto accettato – obbedienza – con un’altra persona che gliela media; ma man mano che si accosta all’apatheia, la visione interiore gli porge la volontà divina nella semplicità del suo stesso cuore – quindi, di chi è questa volontà liberata?). Filolao dice che l’armonia è dicha phronunton symphronesis, “il pensiero-percezione comune di enti che pensano-percepiscono separatamente”: piacere e bene, utile e giustizia si armonizzano (si realizzano, perché tutto è armonia) quando il limite, imponendosi all’illimitato, prende in questa congiunzione la vita e il ritmo del logos, che è duttile e ordinato come il numero. In fondo, ricorda Agostino, è sempre questione di ‘piacere’: “Gode il beone all’osteria, gode il martire fra le catene”; ma il piacere del martire, per non essere sterile voluttà di autoaffermazione, dev’essere sentito da sensi rinnovati, da un’interiorità che il limite ha purificato.
L’armonia, però, è anche – almeno per noi moderni – un problema: l’aggiogamento della polarità originaria genera l’equilibrio, ma anche la mixis, la mescolanza che angosciava i manichei. Stupendo aforisma di La Rochefoucauld: se l’uomo fosse del tutto cattivo, sarebbe meno pericoloso. Ancora più bella l’intuizione di Proust: i sadici veri, quelli che godono della sofferenza altrui in quanto tale, sono rarissimi; nella stragrande maggioranza degli uomini, il gusto di infliggere dolore deriva dall’idea di far soffrire un malvagio (da un’idea di giustizia, di bene!). Così il piacere puro, come insegna benissimo Epicuro, è indissociabile dalla quiete interiore di chi ha ridotto i desideri e le avversioni e gusta il momento presente in anima e corpo: dunque da un’ascesi che, in quanto tale, è orientata ad un limite, o meglio a un’armonia di limite e illimitato, un bene piacevole, un piacere buono, una symphronesis in cui la separazione tende allo zero. (Interessante: Epicuro parla di loghismos, “calcolo” dei piaceri, non certo nel senso settecentesco, ma forse con un consapevole riferimento alla logistica o arte del calcolo pitagorica, in cui le grandezze incommensurabili, e quindi i numeri irrazionali, vengono calcolate per approssimazione crescente).

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