Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 21 marzo 2010

Fourth Dimension


Il mondo 4D è l’aion, la pienezza ideale, fresca, permanente della creazione (o dell’essere). È la sfera-uovo di Parmenide, di Empedocle, di Democrito, che è quindi utile immaginare come un’ipersfera, come l’essere-tempo di Dogen, come il continuum spaziotemporale di Einstein. La geometria e la matematica forniscono potenti analogie, anche se miti come quello platonico della caverna, pur essendo meno espliciti sulla necessità di rinnovare i sensi e ampliare la prospettiva in direzione dei realiora – e quindi lasciando più spazio all’illusione dell’idea come ens rationis, come realtà mentale –, danno il pathos genuino, rigoroso ed esatto dell’accesso liberante alle dimensioni superiori.
Un essere 4D si manifesta nel mondo 3D più o meno come nella metafora ingegnosa di Abbott: ma l’intuizione che davvero apre la prospettiva è la scoperta che il nostro mondo, la nostra Flatlandia o Spacelandia, è immersa nella dimensione superiore, avvolta da essa. L’alterità fra l’essere sovradimensionale e me fa ancora parte dell’ignoranza che limita sia la mia che, ad un livello superiore, la sua visione: l’ignoranza che accomuna uomini e dèi-angeli, e che le religioni di liberazione come il buddhismo (e l’esoterismo brahmanico, il Vedanta – ma anche le altre filosofie che si propongono la moksha) o monoteistiche – abramiche – trascendono additando un Omega, un infinito assoluto, un insieme di tutti gli insiemi, realtà al tempo stesso esperienziale e sovraesperienziale, cui l’uomo, copula mundi, essere posto alla giunzione fra le dimensioni, il più povero e il più glorioso, è chiamato in modo paradossale (soddisfazione del desiderio infantile, magico più profondo attraverso la sua umiliazione radicale, attraverso un capovolgimento che lo guarda in trasparenza, lo svuota e lo realizza).
L’essere 4D mi si rivela attraverso una successione temporale di sezioni 3D: il loro spessore quadridimensionale, che non posso percepire con i miei sensi ordinari, è uno spessore quindi temporale, la cui esperienza mi è accessibile attraverso la fede immaginale. La rivelazione dell’essere 4D è insomma il miracolo, la magia fiabesca che, come insegna Chesterton, deve essermi anzitutto la chiave di tutto ciò che è, del mondo così com’è. Il miracolo mi fa accedere alla struttura verace, profonda perché nascosta e nascosta perché troppo reale, troppo manifesta per i miei limiti cognitivi, del mio mondo 3D: mi fa accedere alla verità del suo essere immerso in altri mondi, in infinite altre dimensioni che – religiosamente – dovrebbero chiudersi (ma in un senso sovralogico e in parte anche sovranalogico) in un Tutto creato e quindi a sua volta immerso nell’Ω dell’Uno, o piuttosto emerso, staccato dalla Sua sovrinfinita (o infinita in senso fortissimo e proprio) pienezza.
Come dice Coulianu, se un essere 4D intersecasse il mio spazio (il mio mondo) 3D, l’esperienza e gli schemi mentali acquisiti mi indurrebbero a considerarlo un essere 3D imprevedibile e bizzarro, sfuggente e minaccioso, derisorio quasi. Forse la sua superiorità potrebbe apparirmi come una deficienza, una mostruosità. Ma se avessi sottoposto la totalità della mia vita percettiva, delle mie attività cognitive ad una scepsi, ad una continua contestazione del continuo, ad una sua incessante frantumazione nel discontinuo, potrei intuire – cogliendo la mia esperienza nella più ampia prospettiva della fede immaginale e razionale – che ogni fenomeno e tutti i fenomeni manifestano una totalità 4D unimolteplice, articolata e indivisa, una vita daimonica di cui il nostro mondo è la contrazione, il riflesso, ma anche – corbinianamente – il luogo epifanico (mazhar). La caverna platonica è luogo di prigionia e schiavitù, ma anche di iniziazione, a seconda della prospettiva in cui, dinamicamente, la si inserisce.
Insomma, vivere consapevolmente come in un sogno (vivere come se), vivere mettendo in questione, istante dopo istante, l’apparente necessità, la presunta concatenazione irreversibile dei fenomeni (vederla cioè in trasparenza come qualcosa di fatto, di voluto, di non-ottusamente-dato), è la chiave del mondo immaginale, di quella dimensione che è lecito chiamare quarta rispetto alle tre da noi ordinariamente conosciute e che, sempre in relazione alla tridimensionalità, si può considerare “fuori” dal (nostro) mondo, ma anche interna, intima ad esso. Come dice Dante, in Dio centro e circonferenza coincidono: ciò è possibile solo in uno spazio curvato su se stesso nel tempo, in uno spazio quadridimensionale (o sovradimensionale). Del resto, non insegnavano le Upanishad che l’infinitamente piccolo nascosto nel mio cuore coincide con l’infinitamente grande, con l’onniavvolgente realtà? Ma questa metafora si realizza solo educando sensi, immaginazione e intelletto a proiettarsi, con rigore geometrico-matematico e metafisico, al di là della supposta tridimensionalità della nostra esperienza.
Nella filosofia islamica medievale le regolarità del cosmo venivano chiamate “abitudini”: anzitutto abitudini cognitive, percettive del soggetto umano; perché in realtà il creato sorge e scompare ad ogni istante. Non sembra di sentire Hume – le cui geniali ma limitate intuizioni possono condurre a un empirismo aporetico oppure a recuperare la sapienza religiosa arcaica (persino quello sciamanica)?

L’anima e la forma come ‘corpi’ quadridimensionali: la vita nel nostro mondo è il moto interno di anima, il moto nel nostro mondo è la modalità della manifestazione del ‘corpo’-anima. Il tempo, secondo Platone, è l’immagine in movimento dell’aion.
Il corpo è ‘all’interno’ di anima, come strumento plasmato dalla sua volontà e dalla sua fantasia: come la visione di un essere 3D è fatta di quadri 2D, così la visione di un essere 4D è fatta di ‘corpi’ 3D. L’anima abbraccia e penetra il corpo, è l’aria onniavolgente-onnipenetrante.
L’infinito attuale cantoriano come simbolo matematico di un universo fondato sulla forma – ma su una forma non atomistica, cioè in opposizione aporetica al continuo, bensì sulla forma come misteriosamente compresente al continuo. Il transfinito è l’infinità propria del corpoanima, della materiaforma, l’infinità limitata (formata) in cui si realizzano tutti i paradossi della conoscenza intuitiva del mondo come unus mundus: panta en pasin, il cerchio dei XXIV filosofi, il nullibi-et-ubique, insomma l’unità-interdipendenza non nel senso del continuo materiale, dell’informità-illimitatezza, ma nel senso di un’onnipresenza-indivisibilità reale.
La quarta dimensione è l’anima, l’aion, la terza ipostasi neoplatonica, che a sua volta si compie nell’epistrophè al nous, dove l’unimolteplicità è realizzata. Corrisponde alla Binah cabbalistica, all’Uovo-Embrione delle cosmogonie. L’uovo è un ottimo simbolo dell’unus mundus: spaziotempo curvato su se stesso, dispiegamento raccolto, infinito limitato. Tutta la filosofia presocratica vi ritorna: la Palla di Parmenide, di Empedocle, di Democrito... Il suo rapporto con l’Uno plotiniano è misterioso: viene per lo più taciuto. Come se il sapiente egiziano avesse tentato di esprimere qualcosa di inesprimibile proprio perché fondante. Eppure ‘ciò’ a cui si accede tramite l’estasi non può che essere il turiya vedantico, il quarto stato superiore alla prajna del nous, l’Uno-Zero, ‘ciò’ a cui appunto si volge l’eterna contemplazione del nous.

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