Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 30 marzo 2010

Sorvegliare il punire


Verri e Beccaria, quando scrivevano i loro stupendi trattati digiuni di ideologia – anche se (è fatale) condizionati da uno Zeitgeist che si ritraeva insieme da bassura e profondità –, avevano davanti agli occhi i tratti di corda, gli stivaletti, le sedie con le punte di ferro, le pere d’angoscia, le tenaglie roventi, le veglie in posture bizzarre; e gli arrotati, gli impalati, i bisecati, i bruciati con camicie intrise di zolfo, i mazzolati, gli squartati (ancora risuonavano nell’aria le grida di Damiens, fatto a brandelli per aver graffiato il giustacuore del Beneamato). Fra l’elogio del boia di De Maistre e le difficili meditazioni degli illuministi milanesi non esito un istante nella scelta: ma anche i frutti più nutrienti dell’Aufklärung nascondono la magagna dell’impazienza, della volontà borghese di educare e redimere l’arcaico, l’arché. Le moderne idee sul diritto, e i sistemi penali che le incarnano, recano tracce quasi del tutto inconsce della nobile e tragica lotta che ha opposto il logos umano – con le sue invenzioni analogiche, le sue glosse a margine, la sua critica distruttiva piegata a recuperare la forma sfigurata dal tempo – alle intuizioni sacrali e profetiche sul delitto, il procedimento giudiziario, l’ascesi della pena, la maledizione. Come il nevrotico patisce oscuramente la moderna rimozione del rito, e ne costruisce simulacri privati e impenetrabili alla luce della piazza, così l’animale politico dei nostri tempi, frantumata un’unità che non poteva non contaminarsi di idolatria, si ritrova sempre al punto di partenza, ad Hammurabi, all’Imperatore Giallo, a Solone, alle Dodici Tavole, con la notevole aggravante di rifiutarsi di saperlo, di credersi benedetto dal lavoro di padri che non ama, o semplicemente – ed è il peggio – dalla mera illusione della distanza temporale: è questa la sua nevrosi politico-giuridica. Un Verri e un Beccaria dei nostri giorni non dovrebbero distillare pensiero dall’orrore e dalla pietà per gli inutilmente attanagliati, per i teatralmente smembrati; dovrebbero disincantarsi e disincantare dalla magia del sentimentalismo presuntuoso e superbo, dall’insensibilità di massa spacciata per mitezza, dai tanti guasti dell’illuminismo stesso degradato a ideologia. Dovrebbero mostrare che le pene post-moderne sono atroci perché anestetizzanti (per l’imputato, per il giudice, per le vittime, per tutti): dovrebbero, insomma (e sembra un ufficio più profetico che giuridico), riportarci nel deserto, additarci l’equilibrio oscillante tra Giudizio e Misericordia.

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