Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 5 marzo 2010

Hallevay she-ya‘amod!



Il midrash ausculta le inquietudini, le fratture, i cedimenti geologici dello Scritto: e lo fa con angoscia concentrata e luminose sprezzature. Quando leggiamo l’immortale poema di Genesi 1, il wayyare Elohim ki-tov per noi è: “e Dio vide che era cosa buona”; un atto contemplativo che termina e perfeziona l’atto della volontà e della potenza. Ma l’esegeta midrashico sente qualcosa di drammatico, lieve e periclitante al tempo stesso nell’edificio del Bereshit: e quella formula gli porge anche e soprattutto un’altra risonanza: “e Dio verificò che andasse bene, che fosse a posto”. L’opera creatrice di Dio in ebraico è una mel’akah, termine in cui è la stessa radice di mal’akh, messo, angelo: un’opera che si esegue dietro l’ordine di qualcun altro – e chi poteva mai essere questo altro, se non lo stesso Dio, ma un Dio uni-molteplice, come suggerisce delicatamente il plurale Elohim (lui-gli-dei)? Alle dipendenze di se stesso, l’Operaio controlla ad ogni fase del lavoro che le cose stiano procedendo come si deve: saggia, misura, prende le distanze, palpa. Secondo il midrash, se ne sarebbe uscito con un ottativo memorabile, quasi umoristico: hallevay she-ya‘amod, “magari durasse!” (ottima la traduzione di Moni Ovadia: “speriamo che tenga!”). In fondo è questa la risposta ebraica ai dualismi gnostici temperati o radicali: Dio è il Demiurgo di se stesso, ma non se la canta e se la suona nella solitudine tenebrosa di un cominciamento immaginario; al contrario, si ritira, fa spazio all’universo, sfolgora nella sua sapientissima debolezza come un operaio-ingegnere che controlla la casa che sta costruendo e spera che tenga.

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