Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 8 marzo 2010

Peripezie del verbo profetico


Il cosiddetto “laicismo” ha fatto al cristianesimo ciò che il cristianesimo ha fatto all’ebraismo. Vedere il laicismo come una religione (o meglio come l’estrema caduta kenotica della rivelazione cristiana) aiuta a schiarirlo proprio in quanto lo rende più complesso. La laicità cristiana è come la preservazione delle causae secundae: ha senso solo in Christo, nella soggettività rinnovata dal nous di Cristo; di per sé (non-trinitariamente) la debolezza ontologica delle creature, a contatto con l’eversione cristiana (la sua potenza distruttiva attivata contro l’ordo ebraico), con la sua sempre rinnovabile carica di eschaton, di messianismo totale, genera lo screziato (e spesso inconscio, a causa del pathos ottundente della rottura) soggettivismo laicista, il “moderno” come anti-cristianesimo interno ed esterno al cristianesimo. Ma il laicismo, che è l’unica autentica religione universale dell’occidente e, tramite l’occidente, del mondo, non può che vivere dei margini (ed esotericamente ai margini) del cristianesimo, come il cristianesimo ha vissuto e vive dei margini dell’ebraismo, e quindi attraverso di essi può prendere coscienza di sé, riflettere su di sé, vedere in trasparenza il proprio mito (nella misura in cui è anch’esso un mito).
Quando un cristiano ritiene la rivelazione trinitaria più definitiva di quella ebraico-islamica (l’islam, se non nella misura in cui è stato colonizzato-ospitato dall’occidente “cristiano”, non ha assunto l’altro-da-sé in modo intimamente straziato, tragico), dovrebbe anche guardare, ad esempio, alla Rivoluzione Francese quasi come alla stessa Croce di Cristo – inaccettabile e (per questo) salvifica. Del resto, il pathos rivoluzionario, che è appunto alienante, può esser fatto decantare solo nel tragico, nella consapevolezza in sé lacerata dell’altro in quanto altro.

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