Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 7 marzo 2010

Frammento di un’Apocalisse dimenticata del V secolo dopo Cristo


In quel giorno – oracolo del Signore –
ella mi chiamerà “mio uomo”,
e non mi chiamerà più “mio padrone”.
Osea 2,18

Ho trovato il resto papiraceo che segue nella cospicua biblioteca di un commerciante di Isfahan, fragile e brizzolato (lo sospettai, per certe immagini e segni sparsi nella casa ariosa e modesta, zoroastriano o derviscio); non mi fu difficile trasferirlo nella mia, grazie a qualche migliaio di dollari e ad un’amabile conversazione, davanti a un tè amaro e fumante, sulla comune dottrina della resurrezione dei corpi. È scritto in un greco indeciso e ibrido, che tradisce l’origine siriaca dell’autore, probabilmente vicino, senza vistosi legami di setta e di scuola, agli gnostici alessandrini. Dapprima mi dominò, per abitudine, la curiosità erudita; poi ho lasciato, quasi trasognatamente, che nel malandato papiro si rilevassero, come in uno specchio incrinato e oscuro, i miei stessi lineamenti più indifesi e privati. Così la traduzione è riuscita, come si vede, miseramente libera, perché le lacune e le incertezze del testo si sono offerte ad una mia piccola, intima, concomitante trasmutazione. Oso pregare Colui che ha suggerito queste poche e fragili parole di non lasciare priva del Suo soffio e della Sua freschezza la mia, quasi invincibile ormai, siccità di erudito.

* * *

...mi disse l’Inviato: “Quando verrà l’Ora (che è adesso, come è scritto: L’ora sta venendo, ed è adesso [Gv 4,28]; ed egli mi sussurrò, non so se prima o dopo o, stranamente, vertiginosamente, nelle pieghe e nelle sinuosità delle sue stesse parole, che si serviva del tempo futuro solo per lasciare respiro al mio intelletto mortale. Non diversamente, disse, si racconta ai bambini – tutti gli uomini lo sono – di angeli fiammeggianti e carichi di emblemi, di demonî ispidi e travolgenti come gl’incubi più antichi dell’infanzia; mentre gli angeli sono miti e discreti, e vegliano nelle nicchie delle nostre esitazioni, nelle pagine dei libri, nelle lente brezze della sera, nei lineamenti più casti dei fiori, dei viandanti, degli oggetti: e i demonî sono untuosi e tristi come vecchi mercanti; invece sono gli uomini i tumultuosi, i foschi, i liquidi, i privi di volto, e non calpestano la terra, come credono, ma barcollano smisurati tra le fogne e le costellazioni) quando verrà l’Ora in cui tutte le creature riceveranno il Giudizio del loro Signore, pur restando dov’erano convergeranno in un solo luogo, in una sola sospensione, in un solo tenero fremito di appena nati, di appena morti”. La sua pazienza era luminosa e severa quando, con un breve gesto, mi esortò, o mi ordinò: “Guarda dunque, lo puoi, figlio dell’uomo!”.
Guardai; e allora vidi e sentii (con l’umiliazione di sentire così poco) la nudità e l’ansia dei minerali, calpestati, negletti, torturati e calcinati dagli uomini, da sempre fedeli nella loro segreta speranza, nella loro purificazione; vidi e sentii la nudità delle piante, la loro muta nobiltà, la loro spregiata fraternità vivente con la Croce; vidi e sentii la ricca nudità degli animali, coi loro rapidi e profetici tremori. Poi mi voltai, e cercai di posare l’occhio sugli eserciti sterminati degli uomini, variamente curvi su di sé, variamente velati, ingolfati dalle prove tenaci del loro ricordo, dalle armi, dagli specchi, dalle lettere, dalle insegne vane e adorate, dal disegno infinito dei morbi e della magia; ed erano tutti sorpresi e umiliati.
D’un tratto, s’udì la Voce – la Voce inconcepibile, e che pure s’era inchinata a parlare, nella carne, alla carne, con l’accento stridulo della Galilea delle genti, l’accento che aveva attirato lo scherno e il sospetto su Pietro, nell’ultima notte; e non parlò dal turbine ma, come usava sui sassi e sotto gli ulivi della Palestina, sembrava ancora ricordare a ciascuno ciò che aveva laboriosamente dimenticato: e parlò così: “Figli e fratelli, per il mio amore, il mio dolore e la mia gioia, il Giudizio che viene – ora, subito, senza complicazioni – il Giudizio che avete semplicemente atteso o molteplicemente trascurato, non sarà armato e sonante; non affollerà bilance e computi sulle vostre teste: non vi toglierà, non vi aggiungerà niente. Perché il mio Giudizio è un dono; e un dono è un sigillo per coloro che già si conoscevano, e si erano separati. Il mio Giudizio sarà come il mistero della conoscenza dell’uomo e della donna: che al bambino appare un incastro confuso, una sopraffazione, una violazione nascosta della tenerezza e della fiducia; all’adolescente, un’avventura necessaria, un mare, un ombroso richiamo della sua intima primavera e di tutti gli avi insoddisfatti; allo sposo, un trionfo di fragilità e stupore, e un brivido di pace: all’ossesso, una spina triste e insistente, lo scatto sordo di un imperativo noto e indefinito; allo stolto, consegnato alla propria stoltezza, un tributo di stanchezza, una vuota conferma di niente. Venite dunque, tutti e ciascuno, a prendere nella mia stanza ciò che vi appartiene”.
Come la spaventosa dolcezza della Voce ebbe toccato ogni atomo di quella polvere smarrita, io vidi la natura deporre le sottili gramaglie e il velo leggero, e ricordarsi per la prima volta della sua lontana aurora. E vidi gli uomini stupidi e solenni e inermi, come i corpi che avanzano al talamo verso i corpi desiderati; e vidi l’uomo che ha molto amato divenire come il novizio: e il ramo secco umettarsi di gioia; e l’abbandonato spogliarsi della sua offesa interminabile: e quanti avevano ammucchiato, con dolce gelosia, l’attesa, li vidi sfolgoranti di trepidazione nuova e incerti nel passo, come Giacobbe a Penuèl; e in quanti non avevano atteso mi parve di vedere il seme congelato e contratto, sì che li faceva tutti aridi e ritorti, inutilmente aggrappati a sé stessi, come le rovine degl’idoli di Babel. E vidi me stesso, e la ferita che lungamente avevo nutrito, indurendola, aprirsi di nuovo, ma come un fiore adesso; e scorsi, faticando a riconoscerla, per la semplicità del suo aspetto che avevo osato, nel mondo, scompigliare coi miei sogni, la donna della mia giovinezza: e compresi che non era lei ad aspettarmi nel segreto nuziale – e traboccai di timore e di consolazione nell’imminenza della mia pace.
Poi, apparve Lui; ma Lui io non potei vederlo, a somiglianza di Mosè, che s’affacciò sulla Terra Deliziosa solo dalla frontiera di Moàb, dove morì e fu sepolto. E così mi rifugiai in una piccola caligine che s’andava addensando su di me, e caddi di nuovo sulla polvere del mio borgo, nel rumore delle sue lingue, nella penombra e nell’umido della mia stanza, nell’abbraccio del mio cilicio, e ritrovai le mie mani indecifrate, il mio nome indecifrato, le mie lacrime e la mia domanda, il chiaro, specifico peso della mia angoscia e del mio desiderio, e fra le mani e nelle carni ancora la necessità, oh non più brutale alla fine, di camminare fra gli uomini verso ciò che mi era stato dato (sia lode al Padre delle Luci) di intravedere quel giorno.
Maràna-thà. Signore nostro, vieni! Fine della visione.

Nessun commento:

Posta un commento